Recensione: Kentucky

Di Marco Giono - 3 Maggio 2016 - 0:15
Kentucky
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2016
Nazione:
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75

 

(Re) Welcome Home!

 

Era maggio quando i Black Stone Cherry decisero di tornare a scuola per festeggiare con insegnanti, alunni e famigliari il loro esordio discografico del 2006. In realtà folle festanti e cartelli di benvenuto diedero al loro ritorno un che di trionfale. Se a molte band le proprie origini stanno strette, per via di una fame di mondo e di vita irrefrenabile, non è così per i Black Stone Cherry che amano invece la propria terra e nel momento in cui si separano nel 2015 dalla Roadrunner Records la spinta a riconsolidare il legame con il Kentucky è immediata e istintiva. Tornano quindi a registrare il successore di “Magic Mountain” del 2014 nel vecchio studio (che nel frattempo ha cambiato indirizzo), affidandosi non più, a celebri produttori, ma all’esperienza acquisita in questi anni.  In fondo poi il nuovo album non può altro che intitolarsi “Kentucky” perché si tratta di una illusoria ripartenza da un luogo da cui non si sono mai allontanati.

 

Kentucky Fried Chicken

 

In fondo non si sono mai allontanati nemmeno dalla loro musica che è espressione di uno stile composito in grado di assimilare influenze tra le più varie quali Pearl Jam, Nickelback, Black Label Society tra gli altri ed aver allo stesso tempo uno stile riconoscibile in bilico tra un hard rock modernista e un metal aperto a le più diverse influenze. In “Kentucky” i Black Stone Cherry però spostano l’equilibrio dei suoni verso una pesantezza tipica dello sludge metal modificandosi rispetto all’hard rock più attuale del precedente “Magic Mountain”

Un’onda elettrica si espande materializzandosi in ‘The Way of the Future’, la stessa onda acquisendo forza si scompone in una ritmica di note abrasive alternandosi a soli cinetici. La voce di Chris Robertson si muove a suo agio in quella tempesta e segue una linea melodica che rimanda in parte ai Nickelback in parte a Zakk Wilde, assimilando di questo ultimo il lato più sgraziato. Poi si cambia registro. In ‘Our Dreams’ fanno capolino nella voce i Pearl Jam e in fondo, non fosse per quelle distorsioni possenti, anche le melodie rimangono in bilico tra il grunge di Seattle e un hard rock aggressivo. Questa traccia avrebbe dovuto essere parte del terzo dei Black Stone Cherry intitolato “Between the Devil and the Deep Blue Sea”, ma la Roadrunner la rifiutò e solo ora può ricomparire in grande spolvero. 

Si tratta per i Black Stone Cherry di far si che la pesantezza delle distorsioni sia controbilanciata da melodie e vocalizzi alleggeriti invece dall’uso di effetti vari: tra cui il tremolo simile a quello prodotto dal pedale Leslie (i primi ad utilizzare il Leslie sulla voce furono i Beatles). Questi contrasti funzionano bene ed esaltano brani come ‘Shakin’ My Cage’ che rimanda ai Soundgarden oppure a ‘Born to Die’ che accenna un tributo ai Sabbath per poi trascinarci in una melodia detonante impreziosita a sua volte da riff e soli ispirati come non mai. C’è tanto altro in “Kentucky”. Vi è infatti poi una varietà mai fine stessa e sempre armonizzata nel contesto.  Così ti ritrovi nel funk di ‘Soul Machine’ interpretato abilmente da Robertson che si muove agilmente in quell’esplosione di cori, di blues, di vita. Non è un caso se poco più in là ci imbattiamo nella cover di ‘War’ di Edwin Starr, un cantante soul americano, di nuovo l’interpretazione vocale funziona così come l’attitudine heavy dei Black Star Cherry. Quella vena blues in fondo non si arresta facilmente innestandosi poi in un brano come ‘Rescue Me’ dove tuttavia prevale il lato più energico del gruppo americano. La manopola del distorsore viene spostata verso gli anni ’60. Appaiono così le distorsioni dalle frequenze tagliate di ‘Hangman’ e ‘Feelin’ Fuzzy’, due brani solo all’apparenza giocosi. Se ‘Long Ride’ è una ballad che rimanda ai Pearl Jam senza trovare spunti del tutto originali, funziona decisamente meglio l’acustica ballad ‘The Rambler’ scritta da Jasin Todd degli Shinedown e rivisitata dai Black Stone sia nei testi che nella melodia. Qui la voce ricorda da vicino l’Eddie Veder di quel capolavoro di “Into the Wild” (2007) e si muove su un tappeto acustico impreziosito dall’armonica. Chiudiamo con il southern rock arrogante di ‘Cheaper To Drink Alone’ che di nuovo riesce a farsi piacere…

 

Conclusione (coast to coast)

 

I Black Stone Cherry sanno farsi piacere. Lo fanno rischiando, cambiando spesso direzione. Sarebbe stato facile immaginarli proseguire con sonorità moderne e invece…tornano in “Kentucky” e diventano i Black Stone Cherry delle origini ononime, ma con una consapevolezza ben diversa dei propri mezzi. In fondo in quest’ultimo album ci senti tutta quella strada percorsa nei loro coast to coast. Anche quando non fanno nulla di speciale come in ‘Darkest Secret’ ci trovi sempre dentro passaggi degni nota che ti inducono ad un altro ascolto. 

Tornano a casa a registrare. Cambiano prospettiva. I testi diventano più riflessivi, a volte introspettivi. Non funziona tutto. Nel senso che il manierismo, per lo più riuscito, di “Kentuky” a volte risulta troppo evidente. Altra cosa che talvolta diviene limite è dovuta  alla scelta dei suoni grevi che sembrano trattenere parte dell’energia soprattutto in quei brani più improntanti ad un hard rock selvaggio e famelico quindi di energia. Torno a ripetere che sanno comunque farsi piacere perché il loro stile arricchisce sia in termini di energia che di idee lo spunto inziale. In ogni caso “Kentucky” è un disco più che buono con una varietà di soluzioni pregevoli e una capacità di divertire senza mai ripetersi. 

 

MARCO GIONO

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