Recensione: Kingslayer

Di Simone Volponi - 29 Novembre 2017 - 18:30
Kingslayer
Band: Almanac
Etichetta:
Genere: Power 
Anno: 2017
Nazione:
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75

Victor Smolski è un virtuoso della sei corde innamorato del progressive (inteso come progredire, andare sempre oltre il già fatto) e delle grandi sinfonie. Ha avuto il pregio di dare una scossa alla carriera dei Rage, impantanata nel trito power di sempre e ad esso tornato dopo la dipartita del chitarrista russo. Il progetto strombazzato Lingua Mortis Orchestra, che avrebbe dovuto produrre dischi di metal orchestrale in alternanza a dischi “classici” dei Rage, è stato abortito dal pachidermico Peavy con conseguente allontanamento di Smolski, che in quelle sinfonie metal ci ha sempre creduto. Ecco quindi nascere gli Almanac con cui proseguire il discorso, e a distanza di nemmeno due anni dal debutto “Tsar”, giunge ora al secondo capitolo “Kingslayer”, la risposta sonora alla saga “Games Of Thrones” come pubblicizzato dalla Nuclear Blast. Una raccolta di storie reali che narrano di regicidi, tiranni e despoti che hanno attraversato i secoli, a dimostrazione di come le vicende umane possano essere più feroci e sanguinarie di qualsiasi racconto fantasy.

La line up si rinnova nella parte ritmica con l’ingresso di Athanasios “Zacky” Tsoukas alla batteria e Tim Rashid al basso, mentre sono confermate le tre voci ad alternarsi al microfono: Andy B. Franck (Brainstorm), David Readman (Pink Cream 69) e Jeannette Marchewka (ex-Lingua Mortis Orchestra). Tutto composto e arrangiato meticolosamente dallo stesso Smolski, “Kingslayer” riprende il discorso del debut e lo porta a un livello superiore, come già dimostra la doppietta in apertura con “Regicide” e la travolgente “Children Of The Sacred Path”. Detto dell’impianto lirico incentrato sulla storia, altra passione di Smolski, e quindi per una volta niente vichinghi, celti, draghi o druidi, l’esame della struttura musicale porta in dote un power progressive molto più pesante e diretto di quanto ci si aspetterebbe. L’idea del mastermind era quella di catturare in studio l’impatto che gli Almanac hanno dal vivo, così la componente sinfonica viene messa nella retroguardia e la band punta molto di più sui riff graffianti di Smolski e su una sezione ritmica tellurica dove inevitabilmente si sente il richiamo all’esperienza nei Rage (“Guilty As Charged”) complice anche l’interpretazione aggressiva del duo Franck-Readman.
Hail To The King”, che tratta la storia dello Sri Lanka Dhatusena, detronizzato e ucciso da suo figlio nel 473, è una sorta di AOR barocco dove collaborano alla buona riuscita della narrazione dei cori gregoriani, le tastiere pomp di Smolski, e i contrappunti vocali della sirena Jeannette.
Le tastiere aprono “Losing My Mind” come fosse un pezzo degli Stratovarius, che poi si vivacizza in un vortice vocale dalle svariate sfumature, anche se sostituire un’orchestra con i soli tasti d’avorio fa giocoforza perdere quella grandeur sinfonica cui il progetto mirava almeno nei propositi. Non basta la breve e strumentale titletrack, un intermezzo maestoso, per riportare quel senso di magnificenza utile a gonfiare il metal e dare al tutto un senso di opera. Certo che “Kingdom Of The Blind” è un bel numero epico con un refrain trascinante degno dei migliori Avantasia (punto di riferimento necessario per simili progetti) e rappresenta quell’highlight che torneremo a riascoltare volentieri svariate volte. Ma non tutte le tracce colpiscono nel segno, ad esempio “Headstrong” è troppo tipica nel refrain e prolissa nello sviluppo, nonostante l’ottima alternanza delle tre voci e il lavoro sempre raffinato di Smolski alla sei corde. Intensa il giusto invece la ballad “Last Farewell” dove viene sfruttata di più la presenza della Marchewka, con l’aggiunta di lievi passaggi di flauto e una dolce chitarra acustica come tappeto. Marchewka graffiante anche nella conclusiva “Red Flag”, altro richiamo forte ai Rage ma con un pathos maggiore nell’ottimo coro.

L’impressione è che con “Kingslayer” gli Almanac siano divenuti più band e meno progetto, pur rimanendo tutto sotto il controllo del capo Smolski. I concerti tenuti hanno portato un maggior affiatamento, e spicca la voglia di trovare un sound più diretto sacrificando la parte orchestrale, ma questo è da inserire sotto la voce “peccato”. Senza una corposa sezione sinfonica alle spalle gli Almanac forse correranno il rischio di omologarsi troppo alla scena power moderna, ma va detto che alla seconda prova il songwriting tiene botta, Victor Smolski porta in dote il suono tipico che gli riconosciamo, inevitabilmente debitore del suo lungo trascorso nei Rage (ma forse sarebbe meglio dire il contrario), con il suo arsenale di assoli funambolici e riff corposi. Inoltre il reparto vocale a tre garantisce una varietà interpretativa che tiene in piedi “Kingslayer” anche nei, pochi, passaggi a vuoto.
Di nuovo ampiamente promossi.

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