Recensione: Machine Messiah

Di Andrea Poletti - 3 Febbraio 2017 - 4:14
Machine Messiah
Band: Sepultura
Etichetta:
Genere: Thrash 
Anno: 2017
Nazione:
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75

CAPITOLO 1 : Dove gli stereotipi vivono ancora

I Sepultura sono morti con Max Calvalera, ancora meglio sono morti con “Chaos A.D.”, i Sepultura hanno contribuito alla nascita del Nu-Metal, non capisco perchè la gente li vada a vedere, Green alla voce non mi piace (non ascolta nulla di nuovo dal paleolitico). Dovrebbero sciogliersi, non ascolto a priori e rimango con “Beneath the Remains”, il Thrash è morto, non c’è nulla di bello dopo il 94 nella musica, suonano sempre le stesse cose. Devo andare avanti o possiamo finire questo inno alla superficialità? Se tu che leggi fai pate di una di queste categorie di pensatori “grazie e arrivederci, la porta è quella”; se invece pensi che è la musica che deve vincere sul il nome e/o le lodi di un passato oramai da dimenticare perchè tutto possono riscattarsi e ritrovare l’ispirazione, sei il benvenuto dentro questa recensione a prescindere dal tuo gusto musicale.

CAPITOLO 2 : Schiavi tecnologici

Machine Messiah’, ovvero il quattrordicesimo disco in studio ufficiale in trentadue anni di carriera, l’ottavo con il gigante buono Derrik Green alla voce è per una volta ogni tanto stupefacente, nel senso vero del termine, dove rimani senza parole alla fine del primo ascolto e l’idea che sia l’album sbagliato sale prepotente. No, non v’è nulla di sbagliato e questa volta i nostri hanno creato un platter che definire brutto è ipocrita e visto attraverso una presa di posizione precedentemente acquisita; oggettivamente qua dentro di “cattiva musica” è difficile ritrovarne. Chi sono i Robot oggi? Che innesto hanno e stanno avendo nella nostra vita? Siamo schiavi di una divinità tecnologica quale internet? Che futuro avremo insieme a questo espandersi della loro presenza nella vita quotidiana? Queste sono alcune domande che sono alla base del concept a cui ruota intorno l’intero disco, un album fortemente influenzato dalla musica degli anni 80, non tanto a livello prettamente sonoro ma quale ideologia di fondo. Dieci canzoni che vanno ascoltate in due set distinti dove il “Vinile” ha il lato A sino alla quinta traccia strumentale e il lato B prende vita attraverso ‘Sworn Oath’ per correre sino in fondo, bonus track escluse (qui non Trattate NdR). Tutto chiaro? Dato che non sarà effettuato un “Track by Track” devo e voglio aggiungere che la presenza di un quintetto di corni, di una orchestra di violini, moog, hammond, e l’innesto di ritmiche proprie delle percussioni in stile Maracatu, derivanti da “Chico Science e Nação Zumbi” (Phantom Self) fanno di ‘Machine Messiah’ un disco poliglotta, multiforme, caleidoscopico e privo di confini stilistici.

CAPITOLO 3 : Ispirazione ritrovata

L’ingresso alle musiche è alquanto spiazzante, l’idea che questo sarà un disco distante dai canoni del passato è subito messa in chiaro attraverso una ‘Titletrack’ lenta, ingombrante, ritualistica con i suoi 6 minuti possiamo vederla quale una grande ed immensa intro, prima che sul finale la voce roca e violenta di Derrick prenda forma nella sua vera essenza primordiale. Se questo primo tassello lascia sbigottiti, non v’è tempo di fiatare che la combo formata da ‘I am the Enemy’ (c’è un blast beat attenzione, molto raro in casa Sepultura) e ‘Phantom Self’ regala emozioni come poche volte in passato è accaduto; una doppietta micidiale che ci ricorda come Kisser riesca ancora a suonare e creare thrash vero, quello con i controtesticoli, senza rinunciare ad un velo di melodia che lo contraddistingue da sempre. Il trittico inziale dunque allinea bene o male le coordinate stilistiche dell’intero set, ma il finale del “primo lato del vinile” è quello che regala maggiori emozioni, grazie ad una magnifica strumentale (‘Iceberg Dances’) che diventa nella sua semplice complessità la più grande chiave di lettura di ciò che è oggi questo gruppo. I Sepultura stanno provando a virare verso sperimentazioni più proggressive, meno lineari, dove gli inserimenti di variegati elementi quali la chitarra acustica, il moog, i fiati e tutto il comparto delle percussioni ridefiniscono il concetto musicale entro il quale la band aveva giocato dal 1998 ad oggi. Qualche sperimentazione all’epoca di “Dante XXI” e “A-Lex” era venuta fuori, ma velata e non così prepotente come oggi. Nel cosidetto secondo lato tutto parte per il meglio grazie alla impeccabile ‘Sworn Oath’ all’interno della quale è ipoteticamente rintracciabile il migliore riff dell’intero disco; potenza, melodia, aggressività, epicità e un sapore catchy che prende fino alle budella. La doppietta conclusiva ci offre dal canto suo un gioco di chiaroscuri, contrasti e ramificazioni che rialzano la coda sul finale dopo alcuni brani non così memorabili. ‘Vandals Nest’ in meno di due minuti diventa una delle canzoni più violente mai scritte da sempre nella discografia dei Brasiliani, in sede live deve fare macelli e qui signori e signore, siamo ben oltre molte delle composizioni scritte nella cosidetta “epoca d’oro”. ‘Cyber God’ era inizialemente, nei periodi della preproduzione, denominata dal gruppo “Opeth Song” per via delle molteplici sperimentazioni e progressioni al suo interno, basta vedere il riff iniziale e la voce al limite del parlato, che muta in un mid-tempo molto ben curato; l’idea che questa traccia si colleghi indirettamente con la ‘Titletrack’ iniziale quasi a chiudere un cerchio è preponderante. L’uscita in Fading sono indeciso se vederla come un tocco di classe o semplice passo falso involontario.

CAPITOLO 4: Olio su tela

La produzione affidata a Jens Bogren in Svezia, la volontà di andare oltre, la riuscita di disco e i molteplici colpi di classe creati da questi veterani non vanno ad intaccare, a dispetto di alcune tracce non riuscite benissimo quali ‘Alethea’, ‘Resisitence Parasites’ e ‘Silence Violence’ la ottima stesura complessiva. Il dipinto da cui prende forma la cover è un olio su tela dell’artista Camille Della Rosa denominato “Deus Ex-Machina” del 2010 e ritrae alla perfezione il concept del disco, con forme e colori dove ogni tinta cromatica vaglia un sentiero musicale inesplorato in precedenza. ‘Machine Messiah’ è il miglior disco dell’epoca Green, il disco della rivincita, il dito medio in faccia ai preconcetti dei bigotti, l’ispirazione massima della band da oltre vent’anni a questa parte e deve assolutamente meritare un ascolto da ogni amante del metal, perchè a prescindere dalla fazione di cui si fa parte qua dentro c’è buona musica. Cosa porterà il futuro nessuno lo sà, è l’enigma della vita, ma se dopo 32 anni di carriera questi signori riescono a darci tali frutti non possiamo che essere fiduciosi e rendergli omaggio con un semplice ma sentito “Muito Obrigado

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