Recensione: No Fixed Address

Di Stefano Burini - 1 Dicembre 2014 - 19:22
No Fixed Address
Band: Nickelback
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2014
Nazione:
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50

Se la presenza dei Nickelback sulle pagine di un sito che si occupa di hard ‘n’ heavy vi lascia perplessi forse è perché associate la band dei fratelli Kroeger unicamente alle loro immancabili hit scala classifiche, ignorando del tutto la svolta hard-oriented che ha caratterizzato gli album della seconda metà degli anni 2000. “All The Right Reasons”, “Dark Horse” e “Here And Now” costituiscono, infatti, una tripletta che ha fatto riacquistare ai canadesi parecchie posizioni agli occhi di buona parte dell’uditorio avvezzo alle derive più melodiche dell’hard rock e, ovviamente, a tutti coloro che non disdegnano l’onnipresente flavour alternativo tipico delle band nordamericane  del nuovo millennio.

Dopo una tripletta giocata su tali coordinate – e foriera di buoni risultati dal punto di vista qualitativo – pareva dunque lecito attendersi un sequel del medesimo livello; se, tuttavia, avete già sbirciato il voto a fondo pagina, saprete già che “No Fixed Address” presta – purtroppo – il fianco a più d’una critica.

La partenza, affidata alle movimentate (ma non trascendentali) “MIllion Miles An Hour” e “Edge Of A Revolution” (singolone traino) è più che discreta, ma bastano i primi istanti della moscissima “What Are You Waiting For?” per iniziare a dubitare della reale riuscita del disco. A livello di sonorità si torna indietro fino ai tempi delle ormai vetuste ballate di inizio millennio, senza però l’ispirazione di allora e con l’aggiunta di un’abbondante dose di “maniera” che certamente non giova ad una composizione che, nonostante l’ampio spazio trovato in radio, finirà per deludere i fan più critici. 

Va un po’ meglio con “She Keeps Me Up”, addirittura “sperimentale” nell’economia del sound dei Nickelback con il suo flavour funky quasi alla Jamiroquai, e con la successiva ballata “Make Me Believe Again”, un po’ “Tryin’ Not To Love You” ma in tono minore; tuttavia le canzoni – anche quelle leggermente sopra media – continuano a sembrare ammanierate e non in grado di vivere di luce propria. Molto male anche la successiva “Satellite”, la seconda di un terzetto di ballate (comprendente anche la n.9 “Miss You”) oltremodo lamentose e purtroppo del tutto prive di quell’afflato energico tipico delle power ballad che i canadesi parevano essere riusciti a far proprio con l’eccellente “I’d Come For You” (e che in questo album riecheggia – parzialmente – soltanto nella citata “Make Me Believe Again”). Dopo tale mosceria, “Get ‘em Up” non può che venire accolta come una boccata d’ossigeno nonostante, a ben veder… pardon ascoltare, si tratti di un brano al più sufficiente, peraltro seguito da un ulteriore pezzo piuttosto piatto e anonimo (“The Hammer’s Coming Down”).

Tralasciando la già bistrattata “Miss You”, va  infine detto che il meglio di quest’album si trova proprio in coda, laddove Kroger, Peake & Co. decidono di collocare i due brani meno usuali (e forse anche per questo più freschi e riusciti), ovverosia la funkeggiante “Got Me Runnin’ Round” (in duetto con il rapper Flo Rida) e la buona “Sister Sin”, sorta di rilettura in chiave Nickelback della classica cowboy song di fine anni ’80 ravvivata dal ritmo sinuoso e danzereccio. 

Non bastano, ad ogni modo, tre-quattro canzoni (più o meno) convincenti e un paio di esperimenti discretamente riusciti per sollevare le sorti di un album in tre parole semplicemente innocuo e poco ispirato, nel quale persino la voce di Chad appare incredibilmente sottotono rispetto ai fasti della scorsa tournée. Gli ultras dei rocker di Hanna troveranno di certo i loro buoni motivi per farsi piacere “No Fixed Address”; per tutti gli altri il consiglio è di rivolgere i propri ascolti altrove, sperando che i Nickelback ritrovino presto la retta via e tornino a farci divertire.

Stefano Burini

 

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