Recensione: No Hot Ashes

Di Fabio Vellata - 20 Marzo 2018 - 19:46
No Hot Ashes
Band: No Hot Ashes
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2018
Nazione:
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80

L’ennesima opera meritoria messa in atto da Frontiers music, quella di aver riscoperto e rigenerato una band di ottima qualità, praticamente scomparsa sul nascere, come i No Hot Ashes.
La creazione del gruppo, infatti, risale addirittura al preistorico 1983, anno in cui vide la luce il primo nucleo della formazione nord irlandese, fortemente influenzata dal rock vitale ed energico di UFO, Whitesnake e Foreigner in un epoca parecchio favorevole all’attecchimento (e possibile successo) di sonorità molto diffuse e commercialmente riconosciute.

Solite traversie, sfortune, guai discografici e quant’altro, avevano condotto allo scioglimento prematuro del progetto, proprio alle soglie del debutto previsto nel 1986 e rimandato quindi  a data da destinarsi. Per poi, come accaduto a tante altre valide realtà disperse nel nulla, rimanere lettera morta senza alcuna testimonianza tangibile della propria esistenza.

Un peccato davvero, soprattutto alla luce di quanto possibile constatare giunti all’alba di questo 2018, momento in cui – a distanza di ben trentacinque anni – l’opera prima del sestetto trova finalmente la strada maestra per rivelarsi in via ufficiale, prendendo la forma di un debutto convincente e ricco di importanti risvolti qualitativi.
Prodotto in maniera ineccepibile, suonato da professionisti che, come ovvio, non sono certo alle prime armi e rifinito con tutte le caratteristiche tipiche di un album di alto livello, l’esordio dei No Hot Ashes evidenzia in particolare due elementi che – più di tutti – concorrono ad identificare un disco ben realizzato: buone canzoni ed una grande voce.

Partiamo proprio da quest’ultima: è stata una autentica sorpresa l’ascoltare i colori e le sfumature fornite dalle corde vocali del singer Eamon Nancarrow, dotato di un timbro ed un’intonazione che possono esulare dai confini rock per rivelarsi talora blues, piuttosto che folk o country. Un’interpretazione sempre brillante, al di sopra delle righe, sicura e ricca di intensità, con picchi assoluti da scoprire nei brani “Good To Look Back” (da brividi l’acuto finale) e “Over Again”. Un talento naturale che ci auguriamo di ascoltare ancora molto in futuro.

E poi le canzoni. Tutte di livello medio-alto, sempre di piacevole ascolto, costruite amalgamando con arguzia atmosfere vecchio stile e qualche minimo spunto di modernità che non stona, ma anzi amplifica la sensazione di accuratezza nello scegliere i dettagli e nel confezionare un album dai sapori per nulla stantii o nostalgici, a dispetto di un canovaccio che si colloca elettivamente nel filone del rock classico.
Da segnalare la già citata “Good To Look Back”, il funky blues di “Satisfied”, l’AOR alla Giant di “Boulders” ed il binomio “Over Again” e “Souls”, brani in cui rintracciare una evidente infatuazione per Journey e Foreigner.

Dedicato allo sfortunato bassista Paul Boyd, scomparso da poco ma comunque protagonista nelle registrazioni del disco, l’esordio dei No Hot Ashes è insomma una bella sorpresa.
Una sorta di risarcimento ampiamente dovuto a musicisti di valore che hanno potuto finalmente dimostrare il talento che li ha contraddistinti ed accompagnati per anni, senza però esser mai gratificato da una concreta testimonianza discografica.

Ulteriore merito ed ennesimo trofeo da esibire nella già nutrita bacheca di Frontiers Music.

 

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