Recensione: Ons Vrije Fatum

Di Andrea Poletti - 23 Febbraio 2017 - 6:07
Ons Vrije Fatum
Band: Laster
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2017
Nazione:
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77

Quando non puoi danzare tu, fai danzare la tua anima.
(Madeleine Delbrêl)

Quando la creatività di molteplici arti visive si incontra all’interno di un misero istante, in quel momento si ha la possibilità di creare una goccia di perfezione; quel momento irripetibile e distante anni luce al sol pensiero ci offre l’apertura a mondi sino a poco prima celati alla nostra immaginazione. Intromettersi all’interno del mondo di “Ons Vrije Fatum” (Il nostro libero destino) necessita di cura dei dettagli, di immaginazione applicata all’estetica sonora e un pizzico di apertura mentale. Certamente, come ben intuibile dalla sola copertitna, non siamo di fronte ad un album di “True-Evil-Frost-Grim-Raw-Black Metal” ma piuttosto ad una visione progressista e avanguardistica del concetto contemporaneo di black metal, dove l’assenza e l’unione delle più disparate influenze diventano fondamentali alla riuscita del progetto. Questo secondo disco in studio ci offre i Laster sotto un aspetto meno diretto e più metafisico; i tre anni di distanza dal primo “De Verste Verte ist Hier” (La distanza più lontana è qui) hanno visto l’ingresso di sonorità più attinenti all’avanguardismo stesso, dove band quali Virus, si uniscono a momenti più vicini agli Urfaust sino ad avvicinarsi alla new wave e al rock shoegaze di casa Alcest, concludendo la cavalcata entro gli echi degli ultimi Enslaved senza mai oltrepassre la soglia del cattivo gusto. I Laster sono liberi da ogni forma canzone e danzano sulle note del pentagramma quasi facendosi beffa dei canoni stilistici, l’archietipo stesso del concetto di progressione e avantgarde è insito in queste tracce.

Sempre più spesso, al limite del quotidiano, siamo abituati oggi a vedere molteplici stili unirsi e intrecciarsi tra di loro, la contaminazione non è nulla di nuovo ma in pochi riescono a svilupparla in maniera intelligente e sopra ogni cosa, credibile. La bellezza che risiede all’interno di “Ons Vrije Fatum” risiede proprio nella sua credibilità, in quell’ardua impresa di riuscire a gestire le distanze che risiedono tra lo shoegaze insito in canzoni quali ‘Bitterzoet’ passando entro il micromondo dell’elettronica che risiede nel breve passaggio di ‘De Tijd Vóór’ sino all’avanguardia vera e propria di ‘Er Wordt op Mij Gewacht’. Certamente di puro black, a dispetto del termine scelto per la descrizione, qui ne possiamo trovare poco in proporzione alla durata dell’album, ma quel velo di Maya che lascia intravedere la realtà delle cose ci ricorda come l’estremismo in ambito metal sia ad oggi il punto di partenza per una maggiore versatilità compositiva a dispetto di moti altri generi. I Laster, oltre alle ottime doti da funanboli in ambiti solitamente in conflitto tra loro, riescono magistralmente a gestire lunghe composizioni dalla durata considerevole; le due siute da dieci e undici minuti come ‘De Roes Na’ e ‘Helemaal NaarHuis’ sono un flusso di idee, visioni che prendono il vero senso del ballo e lo spingo al limite concettuale, dove una musica soliltamente nemica del “bello” gioca a dadi con il destino delle emotività. Chi all’interno di ‘Helemaal NaarHuis’ non sente echi degli ultimi Enslaved forgiati di una materia oscura così fine e al tempo stesso violenta tipica della scandinavia avanguardista dei Ved Buens Ende? Musica per palati fini. L’altra suite, come in parte prevedibile, diventa il lato oscuro della luna, dove la furia del gruppo cerca sfogo a suo modo, dentro terriotri più diretti e a tratti folk, il blast beat che si veste di psichedelia è quanto mai azzeccato; senza molti dubbi questo è uno dei picchi espressivi dell’avanguardismo estremo da anni  questa parte.

Nulla da aggiungere, certi album non si leggono ma si ascoltano, si vivono e ognuno cerca di farsi una propria visione dove nessun’altro può arrivare. Queste linee guida servono a te, per comprendere quanta carne c’è sul fuoco e io da umile servo della musica mi metto in silenzio, accendo una paglia e con la musica in sottofondo mi lascio cullare alle 23:08 di questo giorno di febbraio da “Ons Vrije Fatum“. Laster, un mondo atipico dentro la forzatura del quotidano, un nuovo nome che merita altissima attenzione e a buon intenditore poche parole.

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