Recensione: Opacities

Di Andrea Poletti - 13 Gennaio 2016 - 19:20
Opacities
Band: SikTh
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2015
Nazione:
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SIKTH CHI?

I grandi ritorni, le band che si riformano per guadagnare qualche soldo extra o per riaccendere una eventuale luce su di un palinsesto che negli ultimi anni ci ha portato in dono dosi di musiche più o meno riuscite. Alla lunga la passione ritorna sempre e se nasci cocomero, non muori di certo capodoglio (?), ecco che anche i Sikth per la gioia di pochi sono riemersi dalle tenebre. Pochi, molto pochi i fans rispetto alle potenzialità in essere del gruppo,che da sempre ha preso vita attraverso ottimi musicisti regalandoci due opere di elevato valore artistico. Come mai tanta spinta su un gruppo di nicchia che solamente i topi da biblioteca metal conosco? Semplicemente i Sikth sono stati insieme ai Meshuggah i primi, nel bene o nel male, a plasmare le sonorità che oggi formano il movimento che tutti amano denominato Djent. Ancora più semplicemente perché nel 2003 The Trees Are Dead & Dried Out Wait for Something Wild ha lasciato stampa ed appassionati a bocca aperta.

E TU CROWDFUNDI?

Come ogni ritorno esistono dei pro e dei contro, delle facilitazioni e delle difficoltà lungo il cammino; i sogni sono desideri sì ma non sempre, il mercato di oggi è estremamente differente da anche solo dieci anni fa e le case discografiche sono anguste fessure piene di avvoltoi. Se poniamo su di un piedistallo i pro di un ritorno sulla lunga distanza come questo possono venire in mente argomenti quali: il materiale che strabocca dai demo tape, le idee che risultano barocche e senza freni, piene di sperimentazioni strane ed articolate in modo da ottenere un suono più che mai dinamico e avanguardistico per fare infiammare una selva di fan in attesa trepidante da anni e anni. D’altro canto se analizziamo i contro può emergere la difficoltà di immettersi nel mercato odierno, chiedendo aiuto ad una casa discografica rispetto che all’altra un budget oneroso, dovendo alla fine dei conti riporre le proprie speranze su di una campagna crowdfunding che tanto va di moda negli ultimi tempi. Proprio il crowdfunding stesso, questo essere mitologico e senza forma, è stato il motore principale della corsa alla prenotazione nei mesi estivi dell’EP in essere da parte dei fan (anche il sottoscritto), prima di accasarsi per la distribuzione sulla sempre cara Peaceville Records. Non sono queste le sedi per parlare di tale movimento in sensi positivi o negativi ma certo è che una mano alla band è stata data per far farli accasare, ma credo anche che a prescindere da Peaceville o meno, 14€  per un EP di questa band non sia un costo così oneroso, se ci si considera fans.

SEI TRACCE… PIU’ O MENO.

“Il concept dietro Opacities deriva dalle stratificazioni che possiamo ritrovare oltre la superficie, oltre il percepibile di ogni città. Può essere relazionato a tutto ciò che è solamente pensabile o umanamente raggiungibile; molta della ispirazione che ha fatto nascere i brani arriva dalla cultura moderna e dall’ ipocrisia che la racchiude.”

Mikee Goodman

Poco meno di mezz’ora, sei tracce di cui una parlata come da prassi (perché i riti devono essere mantenuti vivi) e una fionda in formato musica. Djent, progressive, math-core, avantgarde che fondono in un turbinio di sapori ed immagini di difficile decifrazione come storia insegna. Già dai primi istanti le coordinate stilistiche pazze e libertine vengono trasmesse negli auricolari, come se il tempo si fosse fermato e il pulsante “pausa creativa” non sia mai esistito. Le forme dissonanti e dispari si susseguono lungo un vortice di visioni e ricordi che lasciano senza parole, sino a quando dopo poco più di due minuti, succede il fattaccio… i tempi si dilatano, le apertura melodiche diventano di forte matrice Periphery e l’idea che i maestri abbiano preso spunti dagli alunni è lampante, un colpo al cuore. Anche con la seconda traccia, quel singolo che oramai conosciamo già denominato Philistine Philosophies emerge un grande punto interrogativo: come mai i Sikth di oggi tendono a copiare i mestieranti con influenze tipiche di casa Korn? Che è successo alla stravaganza che li ha contraddistinti per anni? Ovviamente la classe non è acqua e tutto fila alla perfezione formando un caleidoscopio che riassume alla perfezione gli anni di sonno, continuando sulla scia Death of a Dead Day, senza ahimè quella pazzia innata che una volta sembrava spontanea ed oggi leggermente forzata. Chitarroni ciccioni accordati ai limiti dell’orecchio umano e un groove fuorilegge portano ogni canzone a staccare la struttura musicale dal cantanto di Goodman e Hills, forgiando due binari che convivono sì, ma non necessitano quasi mai gli uni degli altri fortunatamente. La forza dei Sikth è proprio quella di combinare molteplici influenze e farne goduria a cielo aperto. Tokyo Lights è il vocalizzo che attendi, ti immerge nelle stratificazione opache di una città viva e terremotate come la capitale Giapponese dove tutto accade e tutto si distorce; il sussurrato di Goodman è da brividi e diventa inaspettatamente uno dei picchi dell’EP. Proprio quest’ultimo è l’asso vincente mettendo in ombra il lavoro delle clean vocals e portando Hills a diventare quasi inutile e fuori contesto in certi fraseggi. La sensazione che oggi la band lavori più su tempistiche fragorose e martellanti rispetto ad una melodia armonizzata è palese, portando queste aperture a diventare una spina nel fianco. Le tracce di chiusura, come Days are Dreamed che viaggia su tempi lenti ed onirici, porta si i Sikth a riconfermarsi come band che può fare lezione a molti, ma che cerca di districarsi tra tempistiche e passaggi già adocchiati qui e là nei sobborghi del metal venturo (così a molti piace definirlo), rischiando di perdere qualche freccia al proprio arco. Pregevole la produzione che mette in risalto ogni strumento; potente ed efficace con una multistratificazione  calibrata al millimetro che porta la soglia d’attenzione a fermentare vigorosamente.

STRETCHING MATTUTINO

Dopo tutti questi anni abbiamo ricevuto in dono un EP che ricorda a tutti quanto questa band ci sia mancata e quanto avrebbe potuto dire la sua sulle nuove leve, lasciando purtroppo un leggero aspro parietale per quello che oggi risulta la rivisitazione di contesti già sentiti in altre salse da formazioni più giovani e aiutanti. La speranza è che questo sia solo l’inizio per ritornare alla grande, una sottospecie di jam-session per fare stretching in previsione di qualcosa di più grosso, a conti fatti la verità fa male ed oggi più di così non potevano offrirci. Anche se non cambierà la rotazione terrestre, non sconvolgerà il mondo o non toglierà il debito dei paesi poveri questi pochi minuti ci offrono la possibilità di riabbracciare i Sikth e non è roba da poco. Bentornati ragazzi!

“Don’t Forget to smile”

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