Recensione: Peace among the Ruins

Di Riccardo Angelini - 26 Agosto 2005 - 0:00
Peace among the Ruins
Etichetta:
Genere: Prog Rock 
Anno: 2005
Nazione:
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73

Benvenuti, nostalgici della settantiana decade, ecco a voi un piatto che senza dubbio alcuno solleticherà i vostri più fini appetiti. Qualcuno là fuori ricorda i gloriosi tempi che rivoluzionarono la storia del rock con lo stesso affetto che voi nutrite, e in un impeto di intraprendenza ha dato vita a un progetto che gli anni settanta li porta marchiati a fuoco nel cuore. Questo qualcuno, forse vi sorprenderà, risponde al nome di Kurdt Vanderhoof. Sì, avete capito bene: Kurdt Vanderhoof, roccioso axeman nonché fondatore dei pionieri del metallo a stelle e strisce Metal Church, attivi sulle scene mondiali da più di un ventennio, tra molti alti e qualche basso. Oggi, con parecchi anni e altrettanta esperienza in più rispetto agli esordi, il buon vecchio Kurdt torna in scena con una macchina del tempo mascherata da compact disc: allacciate le cinture e preparatevi a tuffarvi in un’epoca ormai lontana nel tempo e nei suoni…
 
Una sana, vigorosa botta di vita: questo è Peace Among The Ruins, opener e title track di un album in fronte al quale si erge in qualità di eloquente portavoce. La scarica di energia pura e sincera che vibra tra le note risalta nell’energia elettrizzante di riff a dir poco trascinanti e nei piroettanti suoni di un autentico organo Hammond, di quelli sempre meno suonati e sempre più sintetizzati, la cui voce vitale e cristallina grida in ogni dove la propria libertà da qualsivoglia artifizio elettronico. Tale è il manifesto programmatico di Vanderhoof e soci: messo al bando il digitale, ciò che restano sono Hammond, mellotron, sintetizzatore analogico, piano elettrico. Tutti suonati alla vecchia maniera. E se è vero che un orecchio non esperto potrebbe non riconoscere la differenza, chiunque potrà misurare sulla propria pelle il feeling straordinario che la band strappa al passato per restituire al presente, oggi nella stessa forma di ieri. State ascoltando la title track? Mettetela in cuffia, e alzate il volume. Sentite il feeling? Sentite la differenza? Davvero pare impossibile rimanere indifferenti di fronte a pezzi tanto brillanti e intensi, impossibile non riconoscere nelle sue melodie arrembanti la matrice dei Deep Purple più energici e potenti. E’ forse questo il brano più riuscito del lotto, quello che meglio di ogni altro rappresenta lo stile dell’album, insieme a quell’altra perla che va sotto il nome di Speed of Time. Stavolta continui cambi di tempo esaltano un basso vivace che stuzzica le melodie vocali vincenti del buon Scott Albright (già con Vanderhoof sul suo primo album da solista), a modellare una scultura dalle molteplici sfaccettature che incanta da ogni angolazione. Due canzoni accomunate da una riflessione a posteriori sulla propria vita e carriera, come potete apprendere dalle parole dello stesso Kurdt.
Di seguito, pur senza più raggiungere tali livelli di coinvolgimento, l’axeman della chiesa del metallo inanella una discreta sfilza di pezzi d’autore. Nella brillante The Fringes un Albright sulle tracce del collega Labrie – ascoltare Season per credere – interpreta alla grande un refrain d’autore, mentre lo stesso Vanderhoof e  Brian Cokeley (da applausi per estro ed eclettismo) cristallizzano melodie d’altri tempi, ispirate da una musa chiamata Yes. Nella più aggressiva Slave qualcuno potrebbe ritrovare a tratti qualcosa della verve di casa Metal Church, ma è sempre la melodia a farla da padrona, col valido supporto di un’accoppiata ritmica Brian Lake (basso) – Jeff Wade (batteria) ancora una volta sugli scudi.
Abbiamo già riconosciuto Deep Purple e Yes, ma a bocconi non mancano riferimenti a Genesis, Kansas, Styx, Uriah Heep e persino a Beatles e Pink Floyd, questi ultimi rispettivamente rintracciabili soprattutto nella spensierata Sun Shine e nell’allucinata Find the Time. Niente male il risultato, confermato dalla conclusiva Bringin It On, ballad in costante climax fino all’epilogo in calando, forte di un ritornello enfatico valorizzato da una piacevole accompagnamento acustico. Lo spettro di generi toccati va dal prog all’hard rock passando per AOR e generi derivati, e trova la sua forza nell’immediata spontaneità di melodie a tratti persino accostabili al pop più fine e ricercato.

Mentre la musica si spegne, una vaga sensazione di nostalgia accompagna le ultime note. L’idea di poter offrire un giudizio imparziale su quanto appena sentito è pura utopia. Chi ha lasciato un fetta del proprio cuore nei seventies probabilmente lo adorerà: belli i suoni, belle le canzoni, indimenticabili le atmosfere, davvero è difficile chiedere qualcosa di più a un disco di questo tipo. Chi invece non aveva mai soffermato la propria attenzione su quella decade d’oro potrebbe rimanere più freddo e distaccato, anche se il fascino dell’opera di Vanderhoof mieterà sicuramente vittime anche tra le nuove leve. Un paladino del progresso e dell’evoluzione musicale, infine, potrebbe obiettare che ciò che i Presto Ballet hanno fatto è semplicemente assemblare i più diffusi cliché del rock duro, progressivo e da radio in un album sì vario ma non particolarmente complesso, che di nuovo non propone nulla e che non raggiunge affatto i livelli qualitativi dei capolavori del passato. Innegabilmente, a tale sedicente vendicatore non si potrà dar torto. Tuttavia, se solo si vorrà ricordare che questo Peace Among the Ruins non nasce per la volontà di sperimentare il nuovo ma con il proposito di riscoprire il vecchio, che è suonato la schiettezza nostalgica di chi è in grado di far rivivere un’attitudine che si credeva perduta, e che coerentemente con tale idea rifiuta quel facile ausilio elettronico del quale senza dubbio non si sarebbe privato se ad animarlo fossero stati intenti meramente commerciali, ecco, se solo si vorranno tenere bene a mente questi pochi, decisivi dettagli, allora anche il più severo detrattore si sarà concesso la possibilità di ascoltare un album che senza pretese di chissà quale portata regalerà molte ore di nostalgico piacere. In un mondo in cui alcune vecchie glorie smettono i panni che le hanno rese celebri per inseguire suoni più moderni e attuali, forse è proprio di un disco come questo che avevamo bisogno.

Tracklist:
1. Peace among the Ruins
2. The Fringes
3. Season
4. Find the Time
5. Speed of Time
6. Sunshine
7. Slave
8. Bringin’ It On

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