Recensione: Proxy

Di Lorenzo Maresca - 26 Novembre 2018 - 10:00
Proxy
Band: The Tangent
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2018
Nazione:
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76

Nati come uno dei numerosi supergruppi di cui è popolato lo scenario progressive, i The Tangent hanno ormai alle spalle una carriera lunga oltre quindici anni, che li ha visti pubblicare con notevole frequenza e regolarità, arrivando oggi al decimo album in studio. Incentrata da sempre attorno alla figura del tastierista e cantante Andy Tillison, la band britannica ha visto susseguirsi negli anni numerosi cambi di formazione, che hanno coinvolto anche alcuni nomi piuttosto noti nell’ambiente del prog. Nel nuovo Proxy possiamo ascoltare il master mind affiancato da un fedele collaboratore di Robert Fripp come Theo Travis ai fiati (attivo anche nell’ultima incarnazione dei Soft Machine), da Jonas Reingold (Flower Kings/Steve Hackett band) al basso, Luke Machin (Maschine/Francis Dunnery band) alla chitarra, Steve Roberts (ex Magenta/Godsticks) alla batteria, e Goran Edman (Karmakanic/ex Yngwie Malmsteen band) come ospite in alcune parti vocali.

Ad aprire l’album troviamo la title track, un imponente brano di sedici minuti che ci proietta in un’atmosfera Seventies con influenze provenienti da band come Gentle Giant, CamelSoft Machine e, in senso più ampio, dalla celebre scuola di Canterbury. Generalmente nel progressive rock si tende a considerare i brani più lunghi come i migliori dei rispettivi dischi, e spesso a ragione, ma in questo caso possiamo rischiare di sbilanciarci affermando il contrario. La title track si rivela essere forse il pezzo meno significativo di Proxy: troppo forti i richiami ai gruppi storici del genere, troppo legati a quella scena musicale i riff, e il brano, pur lasciandosi ascoltare, risulta un po’ dispersivo. La successiva “The Melting Andalusian Skies” è una piacevole strumentale dalle sonorità mediterranee che si sposta in territori propri del jazz, della fusion e del flamenco, con raffinati fraseggi di piano e chitarra acustica, ma senza rinunciare a sintetizzatori e chitarre elettriche. “A Case of Misplaced Optimism” è stato curiosamente descritto dalla band come il tentativo di trovare l’anello mancante tra i Porcupine Tree e i Jamiroquai: nonostante sia piuttosto difficile trovare qualche riferimento ai primi, è dei secondi che si riconosce l’influenza, con risultati peraltro molto convincenti. Il pezzo riesce ad alternare un mood rilassante a un ritmo più spigliato sul ritornello, mentre l’uso dei fiati e delle tastiere ricorda in effetti proprio quella miscela di funk e acid jazz che caratterizzava i primi album dei Jamiroquai. Si prosegue con un altro brano ben riuscito, che si può indicare senza troppi dubbi come il migliore del disco. “The Adulthood Lie” è un pezzo ambizioso che tenta di amalgamare influenze molto diverse. Altra composizione piuttosto lunga, nella prima parte sembra voler proseguire sulla strada tracciata dal brano precedente, aggiungendo una chitarra dall’inconfondibile ritmica funky. Si prosegue con una struttura convenzionale mentre l’arrangiamento e i suoni vanno complicandosi, facendo scivolare il brano in una nuova direzione che si apre in una sorta di nuovo ritornello diverso dal precedente. La splendida melodia di questa seconda parte ricorda le atmosfere più ariose dei Genesis, ma con una sezione ritmica più vicina all’elettronica che al rock. I musicisti si concedono poi alcune divagazioni strumentali delle quali non è sempre facile prevedere l’evoluzione, per arrivare infine a riproporre la prima parte del brano in chiusura. In coda all’album troviamo “Supper’s Off”, pezzo vivace nel quale ascoltiamo di nuovo qualche reminiscenza dei Genesis nel riff principale (c’entrerà qualcosa con il vago riferimento del titolo? Probabilmente si, a giudicare dalle tematiche del testo). Un Tillison quasi recitativo ci parla con una certa amarezza del particolare attaccamento di buona parte del pubblico medio per la musica degli anni Settanta, un misto di nostalgia e pigrizia mentale che va spesso a scapito degli artisti contemporanei. Nonostante le considerazioni del testo, il pezzo si rivela uno dei più gioiosi dal punto di vista strumentale, con un riff che riecheggerà nelle menti di molti una volta terminato l’ascolto.

Il nuovo lavoro sembra in sostanza confermare quanto fatto dai The Tangent fino a questo momento. La band britannica continua a proporre un progressive rock di buona fattura, non rivoluzionario, ma in grado di regalare una musica onesta e di qualità agli amanti del genere, riuscendo anche a prendere qualche svolta imprevista quando osa nelle contaminazioni.

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