Recensione: Rebirth of Consciousness

Di Daniele D'Adamo - 24 Novembre 2018 - 0:17
Rebirth of Consciousness
Band: Manam
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2018
Nazione:
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75

Manam = Mana (“potere spirituale”, “energia vitale”) + Anaam (“senza nome”). Una sommatoria di due addendi che rivela la profonda attitudine della band italiana a esplorare i lati interiori della mente e dell’animo umano.

Manam, un progetto messo in piedi dal mastermind Marco Salvador (voce e chitarra) che, mediante la pubblicazione di più concept-album, consenta all’ascoltatore di immergersi in viaggi la cui meta finale è stabilita dalla musica.

Musica che, nel caso in ispecie, è un melodic death metal a tutto tondo, nel senso che nello stile dei Nostri si possono trovare tutte le influenze possibili senza che ce ne sia una dominante; con la concezione di base che riguarda anzitutto la proposizione di canzoni piuttosto diverse l’una dall’altra, inserite tuttavia in un unico caleidoscopio multicolore (… miriadi di sfumature d’azzurro?).

Uno stile già formato, benché “Rebirth of Consciousness” sia l’Opera Prima dei veneti, la cui predisposizione a investigare la materia musicale in tutti i suoi aspetti non conduce a deviazioni dalla strada maestra come, a un superficiale ascolto, potrebbe apparire. Da subito, cioè, pare che il full-length non abbia ancora la necessaria coesione delle song per farne un lavoro consistente e compatto. Invece, approfondendo i passaggi del platter, emerge dalle viscere dei vari brani un’anima che marchia a fuoco uno stile personale e ricco di personalità. Il quale, all’apparenza, potrebbe indurre a pensare di avere a che fare con una formazione acerba, alle prime armi, incapace di mettere a fuoco un sound che non scappi da tutte le parti.

Tale interpretazione del modus compositivo indica senz’altro una limpida chiarezza di idee, da parte dei Manam, su ciò che si deve fare e su ciò che non si deve fare. Allora, a poco a poco, song come ‘Supernova’, apparentemente facili ma al contrario complesse, penetrano lentamente nel corpo sino ad accarezzare l’anima. In particolare questa canzone, dotata di un refrain da mandare a memoria per lungo tempo, funge da cartina al tornasole per la foggia musicale scolpita da Salvador e compagni. Le note svolazzano leggere e scivolano via con elegante rapidità, non mancando – e qui è nascosto il segreto dei Manam – di lasciare sulla pelle un alone di languida malinconia. Non è tristezza vera è propria, quella che delinea un mood così intimista, ma una sorta di impalpabile, etereo sentimento romantico. Romantico in relazione non tanto all’interazione umana quanto a una visione vivida, lampante, della Natura. In tutte le sue forme, in tutte le sue manifestazioni, magari tempestose, come suggeriscono i furibondi blast-beats della roboante ‘Atman Denied’.

Proprio la complessità di un lavoro pensato e studiato a fondo toglie un poco di naturalezza all’insieme, istintivamente legato alla composizione con il fil di ferro. Probabilmente – a parere di chi scrive – i Manam dovrebbero lasciarsi andare maggiormente, cavalcando il vento della passione senza tirare minimamente il freno a mano. Consentendo ai vari pezzi di amalgamarsi di più fra loro per un esito finale di gran valore.

E, forse, è proprio qui che si paga dazio per un’esperienza che è tutta da venire (l’ensemble ha soltanto un anno di vita). Ma, come ripetuto, si tratta del primo passo. C’è solo da migliorare, poiché inventiva, talento, adeguatezza tecnica ci sono tutte.

Un altro vanto per il death metal italiano, allora!

Daniele “dani66” D’Adamo

 

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