Recensione: Redeemer Of Souls

Di Eric Nicodemo - 14 Luglio 2014 - 11:15
Redeemer Of Souls
Band: Judas Priest
Etichetta:
Genere:
Anno: 2014
Nazione:
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80

 

 

“Death, doom and destruction rain down upon the forsaken

One being stands alone to save humanity

A soldier born from the past on sad wings of destiny

Powerful, unfliching and hearing the eternal force

That will proclaim and assert metal’s deliverance…

…The Redeemer Of Souls!”

 

 

Mentre il tempo sembrava non migliorare e la nebbia soffocava le strade, Rob e Kenneth (soprannominato K.K.) aspettavano silenziosi nell’atrio fumoso del pub.

Arriverà tra poco.” Ruppe il silenzio la voce roca di Rob, vedendo l’amico mostrare i primi segni d’impazienza.

Spero che arrivi al più presto.” Sbottò K.K.. Ad un tratto, si sentì sbattere la porta d’entrata e il nuovo arrivato si accostò ai due levandosi il cappuccio fradicio, che gli copriva il volto.

Quando iniziamo?” Esordì senza troppi indugi il ragazzo.

Ovviamente subito.” Rispose Rob mentre un sorriso gli lambiva il viso.

Mi hanno detto grandi cose di te… in caso contrario, sarà necessario un drastico miglioramento, pena la bocciatura. E il sottoscritto ne sa qualcosa…” Autoironizzò K.K..

Possiamo solo immaginarci come avvenne realmente l’incontro tra masters dell’heavy come Rob Halford, Glenn Tipton e K.K. Downing. Un incontro che probabilmente avvenne in circostanze diverse ma, dopotutto, chi di noi non si è mai immaginato la scena fatidica della nascita di un mito? Se non tutti, molti lo hanno fatto, un argomento chiacchierato, tra leggenda e verità.

Certo, molti arcani sono stati svelati e altrettanti tabù sono stati infranti, grazie ad esaustive biografie, più o meno autorevoli. Rimane il fatto che, nel bene o male, l’ennesima fatica di una band consacrata come i Judas Priest è sempre luogo di ritrovo, dove affiora alla mente una storia di emozioni create in quarant’anni di carriera.

Sembra quasi impossibile ma dopo il tanto annunciato scioglimento, l’inossidabile Prete è ancora in circolazione. Qualcuno gli aveva già preparato un degno epitaffio, tuttavia sembra che Halford e soci abbiano rifiutato un onorevole pensionamento, che non è detto coincida con questo “Redeemer Of Souls”, in cui l’indimenticabile K.K. Downing viene sostituito dall’esordiente Richie Faulkner (con un passato in band quali Dirty Deeds, Lauren Harris, Voodo Six, Ace Mafia).

Al di là di speculazioni e riflessioni, lo sapete molto bene, adepti dei Judas Priest, cosa aspettarvi da un album che non aggiunge nulla di nuovo a un repertorio arrivato tempo or sono alla sua completa maturazione con “Painkiller”. Comunque, come abbiamo detto, la curiosità questa volta è più forte delle aspettative e, senza rendervi conto, vi sarete già avventati sullo streaming, ascoltando l’iniziale “Dragonaut”, sintesi perfetta dell’album: il riff racchiude echi del lontano e recente passato, li unisce ad una produzione moderna e cede l’anima a coordinate compositive tra l’atipico e il consolidato.

Halford sembra assumere un’intonazione a tratti meno isterica e più arcigna del solito screaming con cui aveva galvanizzato per anni noi metal kidz. D’altra parte, le tonalità acute non vengono certe tralasciate dal Metal God: i cori dei backings strizzano l’occhio (con passione) all’indimenticabile “Electric Eye” mentre il pre-chorus si tinge di epos quando il fuoco del drago (presagio di morte) consuma le nostre certezze (“…Fire in the sky/Paralysed with fear/You know you’re gonna die/Dragonaut is near…”). L’epilogo è affidato alla sei corde, che scolpisce un assolo barocco in chiusura.

Che i Judas nutrano una certa impazienza sembrerebbe evidente dalla posizione della title track, collocata già nel secondo slot della scaletta. Tralasciando ricordi nostalgici, la messianica song accentua il background solenne e drammatico, tra le cui trame il riff tradisce le sue origini (“Hell Patrol”) e sembra mostrare vaga compiacenza per il sound dei figli. La digressione strumentale è un appuntamento irrinunciabile, dove convive una duplice personalità, che vira da un flavour orientaleggiante ad una livrea di stampo neoclassico.

Il doppio filo tra epos e heavy tangenziale non si spezza in “Halls Of Valhalla”, ultima, agognata meta del guerriero vichingo, indiscusso protagonista delle liriche. Il rifferema è un vecchio retaggio che si commenta da solo, a differenza degli splendidi vibrati, intro maestoso del dominio personale degli Dei del Metallo. Vista l’età, Rob non è certo il dissacratore dei tempi della saettante “Freewheel Burning” ma gli acuti possono fregiarsi ancora di una buona estensione vocale. Il nostro viaggio verso Asgard, dimora degli dei nordici, termina mentre veniamo scortati da epici inni nelle sale di Odino, come se i Judas rivivessero non il proprio passato ma quello di altri illustri colleghi.

Il trasporto epico della musica riflette il leitmotiv del platter, che rievoca la leggenda di “Sword Of Damocles”. Rob intesse una linea stentorea che si erge in un inno eroico, veemente di tensione, quasi a carpire la precaria condizione della vita umana, costantemente appesa ad un filo. La tensione sembra diradarsi nell’inframezzo acustico ma è solo fragile illusione, prima di essere travolta dai pesanti fendenti del main guitar, minaccia di una fine imminente.

La marcia nella galleria delle memorie non si interrompe e prosegue con la cadenzata “March Of The Damned”, up-tempo marchiato da un riff rovente in stile “Metal Gods”. Niente assalti da parte di Halford che si attiene su tonalità basse (Black Sabbath?), in sintonia con il pattern concentrico della chitarra, imprevedibile nel dinamico guitar solo. Nel finale, un rumore metallico di sottofondo sembra smuoverci ma ci accorgiamo che questo non è “Metal Gods” ma solo un eco lontano della nostra mente…

Ben altra atmosfera si respira nell’ardente “Down In Flames”, che si concede ad un pulsante groove, lascito dell’incendiaria “One Shot At Glory” (closer di “Painkiller”). Robert improvvisa un botta e risposta tra la propria voce, in primo piano, e il proprio eco, anomalo sostituito dei backings. Le parole del testo sembrano avvertirci di una sorte ormai preannunciata: la gloria passata è un riflesso di fiamma, null’altro.

Ma i Judas sanno incendiare le nostre emozioni con la forza di strofe semplici quanto accattivanti, quasi in contrasto con un guitarwork mai troppo statico, che riverbera tonalità guizzanti, drammatiche e regali, in questo rogo allestito dal duo Tipton/Faulkner. Una livrea di note e arrangiamenti che è l’essenza di questo lavoro, il segreto necessario a liberare dal giogo dei cliché una musica non esente da stilemi già incontrati e sfruttati.

E questa mediazione “tradizione-ricerca compositiva” è impressa nella copertina: l’armatura del Redentore delle Anime incarna un riff di per sé canonico, inserito in un contesto compositivo ricco di impennate e improvvisazioni. Un affresco solista che crea ed esalta la forma canzone, quanto il gioco di colori nato dal contrasto tra tonalità calde e fredde catturate sulla cover.

Parlando di “resurrezione” e “ritorni dall’oltretomba”, “Hell & Back” ci inganna con un incipit arpeggiato, per gettarsi improvvisamente in un mood hard rock spigoloso e sanguigno, senza salti sulla sedia, un tuffo negli anni settanta (“Killing Machine”), tralasciando virtuosismi stucchevoli. Il guitar play centrale è risoluto quanto la tempra forgiata attraverso le fiamme della vita, una vita consacrata al metal, al rock (“…We’ve been through it all/We’ve been to hell and back…”). Forse, un rifiuto ad ogni forma di trend attuale ma anche una promessa che i Judas vogliono mantenere a tutti i costi…

A sangue freddo ci approssimiamo alla fine con “Cold Blooded”, dove la voce di Rob, fredda e distante, sublima un gelido abbraccio, senza ripetere il passato ma acquistando una propria autonoma identità. D’impatto il fluire desolante dei suoni, che emergono dalla chitarra mentre le liriche tolgono l’ultimo respiro di vita: una jam session in cui batteria e chitarre duellano e si alleano tra pause e accelerazioni, infondendo un andamento atipico a questo glaciale brano. A pochi passi dalla fine si crea un bivio, da dove la linea melodica si divide, da una parte, nel lento scorrere di un drammatico vibrato, dall’altra, nelle scale dell’ascia gemella.

Come la tradizione esige, “Metalizer” è ovviamente l’immancabile “ammissione di colpa”: heavy incontaminato per la tutta la vita! Se poi il coro pomposo suona come un giuramento, un inno di fede, quasi un’invocazione ad una nazione (quella del metallo), il vibrato elegante sembra suggellare il patto con questa musica immortale.

Lo stretto rapporto tra vecchio e nuovo non viene meno in “Crossfire”, un midtempo riesumato dal glorioso passato, tornito da un loop ipnotico come cerchi sull’acqua. E mentre la società è vittima dell’ipocrisia e i mass media torturano la nostra mente, fuggiamo da questo delirio cavalcando con i Judas, in una corsa intrisa d’energia e ribellione (Caught in the crossfire/You gotta let go…”). Brilla l’incedere del guitar work, che acquista le tonalità maestose di un whammy bar toccante, nel dramma di un mondo distorto dalla violenza, reso gretto e sordo dal potere (“…World’s gone deaf and dumb…Ruled by the gun…”).

Redeemer Of Souls” non vuole solo rinsaldare i legami con il passato nella forma dei suoni ma anche nelle tematiche. Così rivivono le atmosfere surreali di “Beyond The Realms Of Death” e una canzone dai suoni onirici e misteriosi si materializza assumendo la forma di “Secrets Of The Dead”, percorsa dai brividi di Halford, capace di creare un comparto vocale giocato più sull’interpretazione evocativa che sullo screaming.

Secrets Of The Dead” narra della fragilità dell’uomo, il quale, incapace di imparare dai propri errori, si illude, cercando invano di porvi rimedio (We never learn from our mistakes/Imperfect till the end/You can’t pick up the pieces/And the hearts we break can’t mend…).

La nostra sfida nei territori del classic metal prosegue con “Battle Cry”, che si apre maestosa e teatrale, per poi fuggire su un’accelerazione, travolgente corsa senza respiro, nella gloria dell’estremo sacrificio (“…Praise for sacrifice that’s done…”). Su questo palcoscenico Rob interpreta le hooklines con enfasi lirica, dimostrando un’ampiezza che si mantiene su livelli notevoli. Anche in questo caso la performance di Halford acquista assoluto valore nell’interpretazione, modulando l’intonazione in base al mood del cavalleresco songwriting. Gli acuti, per forza di cose, risultano meno penetranti e intensi del passato. Ciò non toglie che la lotta di “Battle Cry” è vinta, confermando la song uno dei migliori brani dell’intera playlist.

Nella storia del Prete non sono molti gli episodi che possiamo etichettare come ballad. E’ un piacere, dunque, trovare il lento cullare di “Beginning Of The End” come lascito finale dell’album, mentre l’atmosfera si fa crepuscolare e la luce dell’inizio si affievolisce lentamente. Sensazioni di tristezza e malinconia ci invadono e si mescolano durante il lento fluire delle strofe, accese da vibrati passionali.

Giunti al termine di questo nuovo appuntamento, il cerchio si chiude sull’inevitabile epilogo: è inutile dire che “Redeemer Of Souls” è lungi dall’essere la resurrezione del combo ma presenta spunti interessanti come una maggiore apertura verso suoni teatrali e atmosfere decadenti, conservando e unendo l’immediatezza di “Angel Of Retribution” con l’epicità di “Nostradamus”, tralasciandone le divagazioni orchestrali (e concettuali).

Se, però, gusterete la tracklist tutta d’un fiato, l’ascolto potrebbe risultare a tratti stancante nel finale, perché il valore degli episodi, in genere, risiede non tanto nel ritornello ma nello sviluppo complessivo di ogni singolo brano, capace di rivelare sessioni soliste ben congegnate (“Crossfire”), dimostrando il meglio negli episodi più atipici rispetto al classico sound priestiano.

Gioco forza un secondo ascolto potrebbe aiutare l’audience più smaliziato ma allontanare coloro che esigono un approccio più immediato su breve distanza e, per così dire, facilmente memorizzabile. Per questo motivo, vengono in aiuto canzoni più dirette, come l’intrigante “Down In Flames”, delineando un disco capace di mediare momenti più magniloquenti a pulsioni hard’n’heavy, per adattarsi ad una fascia più vasta di pubblico (sempre all’interno di un contesto prettamente tradizionale). Il lavoro, tuttavia, non è esente da passaggi consolidati e canzoni un po’ sottotono (“March Of The Damned”), pur rimanendo episodi tutto sommato godibili all’interno della proposta.  

Dal lato tecnico, l’ascia di Tipton non ha perso smalto, Faulkner dimostra carattere mentre bisogna ammettere che la voce del frontman risulta innegabilmente segnata dal tempo, ormai lontana dal dispotico, acutissimo graffiare che consacrò una leggenda del metallo. Questo non toglie che Halford riesca a caratterizzare il lavoro per interpretazione e timbro (vero marchio di fabbrica del Prete), al di là di una performance che rimane nel complesso ottima. Inutile menzionare la precisione e la compattezza della sessione ritmica, allestita da un Ian Hill in perfetta sinergia con Scott Travis, sempre abile nel dosare la forza del drumming, adattandola all’indole del brano (“Beginning Of The End” docet).

Evitando di soffermarci in ulteriori paragoni con il passato, possiamo affermare con certezza che gli utenti si divideranno grossomodo in due grandi gruppi: da un lato, coloro che lasceranno ogni reticenza e apprezzeranno un album piacevole ma non indimenticabile. Dall’altro, i detrattori, che, una volta affrontato frettolosamente l’ascolto, lo lasceranno nel dimenticatoio o, addirittura, rifuggiranno ogni contatto, rimanendo caparbiamente ancorati al 1990.

E voi con chi vi schiererete: i dissidenti o i compiacenti? Per quanto ci riguarda, noi abbiamo già fatto la nostra scelta…

 

Eric Nicodemo

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