Recensione: Resilient

Di Stefano Ricetti - 10 Ottobre 2013 - 18:52
Resilient
Band: Running Wild
Etichetta:
Genere:
Anno: 2013
Nazione:
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68

Resilienza:

1. Nella tecnologia dei materiali, la resistenza a rottura per sollecitazione dinamica, determinata con apposita prova d’urto: prova di r.; valore di r., il cui inverso è l’indice di fragilità.

2. Nella tecnologia dei filati e dei tessuti, l’attitudine di questi a riprendere, dopo una deformazione, l’aspetto originale.

Resiliente:

dotato di resilienza, che presenta maggiore o minore resilienza: materiali r.; pavimenti, rivestimenti resilienti.

 

A giudicare dalla copertina, rivelata già un mese e mezzo fa, dell’ultimo, attesissimo al varco, Running Wild, minimale e minimalista, indi legata a un passato eroico, c’era da aspettarsi finalmente qualcosa di buono dopo lo scoramento post Shadowmaker, delusione pressoché totale e punto più basso della carriera del combo capitanato da Rock’N’Rolf Kasparek, artwork esterno compreso. A fare venire l’acquolina in bocca e intensificare l’arrapamento pre-uscita il titolo dell’album, Resilient, il cui significato è ampiamente esplicitato a inizio recensione, nonché quello di alcune canzoni.        

Ma, si sa, quello che conta è poi la sostanza, non la confezione con la quale viene proposto un prodotto. Ne sanno qualcosa, ad esempio, quelli con qualche capello grigio in testa, la cui fortissime pulsioni ormonali di gioventù spesso rimanevano disattese dopo essersi già immaginati chissà quali fuochi artificiali da copertine di riviste e videocassette VHS hot da urlo, con gentili e bellissime donzelle dallo sguardo ammiccante ritratte con addosso solamente qualche capo di finissima lingerie. Il sogno – e la libido – erano però destinati a franare solamente dopo pochi passaggi: il titolo e l’immagine ad hoc nascondevano di fatto un prodotto ove v’erano bruttone inenarrabili in azione e della belloccia in bella mostra non vi era nemmeno l’ombra. 

Tornando a noi, di sostanza in Resilient ce n’è, indubbiamente, anche se in cifre imparagonabili a quelle dei tempi d’oro e di certo non sufficiente per poter considerare l’album come l’avanguardia del nuovo corso dei Running Wild.        

Suono sospetto di batteria a parte, Soldiers of Fortune parte in modalità parzialmente dignitosa sullo stile dei ‘Wild che tutti ci si aspetta, quantomeno li ricorda quanto basta. Certo, le velocità assassine di Masquerade difficilmente Heer Kasparek le proporrà di nuovo, ma questo è quello che passa il convento, oggi. Un buon incipit, anche se scritto a tavolino per i fan, dopo i rimbrotti rimediati successivamente a Shadowmaker.

Resilient, intesa come title track, si trascina stancamente sul glorioso passato, a velocità di crociera senza mai, ma proprio mai, tentare un’impennata in linea con lo spirito evocato del caro, vecchio, Adrian posto in copertina.            

Finalmente un po’ di adrenalina in Adventure Highway, pezzo che rispetto ai due precedenti svetta per dinamismo ed entusiasmo. L’inizio di The Drift, suono fastidioso e innervosente di batteria a parte, provoca antichi irrigidimenti di peli sulle braccia, per poi poco dopo ripiegare sui sentieri della normalità.                    

Miracolo! Miracolo Miracolo! Finalmente la traccia numero 5, Desert Rose, non puzza di B-side ma si regge in piedi da sola: riff ficcanti, cannonate di batteria, linee melodiche convincenti, Rolf che sforza il giusto anche a costo di risultare stonato e un coro decente, quantomeno se rapportato al resto del disco.               

Evvvai: Fireheart è 100% Running Wild come si spera sempre di trovare, certo Mister Kasparek non graffia più come un tempo ma gli anni passano per tutti e quindi ok così: velocità, riff, doppia cassa e solo killer da parte di Peter Jordan. Per lo scriba l’highlight di Resilient.      

Evidentemente Rolf si risveglia dopo la metà dell’opera: Run Riot è mid tempo accattivante anche se poi il refrain paga pesantemente dazio per via della scontatezza, ma il resto funziona, eccome!

Down to the Wire passa senza colpo ferire, Crystal Gold va a solleticare territori Accept, peraltro con gusto e piglio tipicamente teutonico, piazzando un buon colpo di alleggerimento alla figura, parafrasando la boxe.      

Tutte le speranze per risollevare le sorti della patria ricadono nei dieci minuti finali di Bloody Island, canzone dal titolo coraggioso e impegnativo, che rimanda volutamente alla golden age degli hamburger. Orbene, i Running Wild, o per meglio dire, lo spirito che ne resta, onorano per quanto possano, nell’Anno Domini 2013, il moniker piratesco che fu e che fece impazzire intere legioni di metalfuckinghead, chiudendo l’album quantomeno con l’onore delle armi.     

Orbene, al netto, questo Resilient suona qualche gradino sopra Shadowmaker ma sempre parecchie tacche sotto Brotherhood e Rogues en Vogue, per rimanere al recente passato, senza andare a scomodare la gloria dei tempi d’oro.  All’album, forse ancor più che nelle ultime prove, manca tremendissimamente lo spirito di band, ossia quello che dovrebbe essere l’ingrediente principale di qualsiasi ensemble che si mette insieme per fare heavy metal. Le scarsissime note contenute all’interno del package, poi, di certo non inducono a pensare ai Running Wild come espressione di più personalità. Che fine hanno fatto i cori maschi? Dov’è la sguaiatezza siderurgica, la possanza, l’onda d’urto che sapeva rimbalzare da di fronte le casse qualsiasi organismo vivente dopo aver premuto il tasto play o aver abbassato la puntina?

Può essere che si pretenda sempre troppo dai Running Wild senza perdonare Loro – ops… a lui, alcunché? Può essere, può essere, quando si ha a che fare con un vero e immacolato – fino a qualche tempo fa –, corum pupuli, pilastro della storia del Metallo tutto pelle, borchie, galeoni e acciaio incandescente sul muso.

C’erano una volta i Running Wild… ora è acclarato che esiste solo un progetto solista che, a meno di miracoli, rimarrà tale anche nei giorni a venire. Una band fra le più grandi dell’HM di sempre, oggi prigioniera di una sola persona, con tutti i difetti e i pregi del caso, come accade quando il singolo fa e disfa, senza confronto, in tutti i campi della vita.   

Resta il fatto che Resilient, rispetto a Shadowmaker, costituisca una prova d’orgoglio, senza ombra di dubbio, nonostante permanga  nell’aere una scia che sa di mesto incompiuto.

 

Stefano “Steven Rich” Ricetti

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