Recensione: Return To Evermore

Di Mauro Gelsomini - 30 Settembre 2004 - 0:00
Return To Evermore
Band: Ten
Etichetta:
Genere:
Anno: 2004
Nazione:
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70

Tornano i Ten di Gary Hughes, dopo la parentesi dedicata all’imponente progetto solista “Once And Future King“, con un cambio di formazione: alla chitarra Chris Francis (già rodato con l’epica opera rock) prende il posto del grande Vinny Burns, ma l’avvicendamento non compromette il sound degli inglesi, sempre fedeli a quello che ormai è diventato un marchio di fabbrica. Qualitativamente l’assenza di Vinny si fa sentire non poco, non certo in fatto di tecnica, dove Francis si difende decisamente bene, ma in fatto di gusti, essendo Burns un maestro da questo punto di vista, e senza nulla togliere al nuovo chitarrista, difficilmente raggiungibile.
Il peso della qualità ricade allora interamente sui due principali compositori della band, vale a dire Hughes e il tastierista Paul Hodson, anch’egli proveniente dalla recente esperienza solista.
Le nuove composizioni tendono a semplificarsi rispetto agli standard cui i Ten ci hanno abituati. Se ripenso al livello di un disco come “The Name Of The Rose”, con questo “Return Of Evermore” il sestetto esce ridimensionato, o quantomeno trasformato, visto che anche i Ten colgono al volo la recente ventata AOR e prediligono un sound più sbarazzino, con un occhio di riguardo per gli spunti che ne fanno senz’altro un prodotto di chiara matrice Ten.

L’album si apre con una perla, “Apparition”, un crescendo metallico e dinamico in perfetto stile Ten, dal riffing ricorrente e immediato ma trascinante come pochi. Risulta superficiale e ripetitiva, invece, almeno dal punto di vista del riffing di John Halliwell, la seguente “Dreamtide”, ma altrettanto non può dirsi della bella cavalcata “Evermore”, dagli esaltanti echi celtici, e anche “Sail Away” è una ballad che tiene alta la bandiera del gusto e della raffinatezza, con la voce di Hughes costantemente sugli scudi, e le tastiere di Hodson che svolgono un gran lavoro in fatto di arrangiamenti.
L’intro a cappella di “Temple Of Love” è a dir poco fantastica, e il brano si candida a migliore dell’album, con una performance straordinaria anche da parte di Francis, alle prese con un guitar-work Dokken-oriented. Il nuovo entrato è ancora mattatore in “Even The Ghosts Cry”, col tapping che introduce un up-tempo dal flavour ottantiano, mentre “Strangers In The Night” riprende un po’ le malinconiche composizioni del precedente “Far Beyond The World”, con i bassi di  Hughes che mettono i brividi sulle strofe.
Addirittura di stampo Rainbow la rockeggiante “Evil’s On Top In The World”, e non vi lascerà scampo l’AOR di “The One”, con i legati di Francis ancora in bell’evidenza, ma stavolta a fare da sparring partner di Hughes sono i ritmi quasi ballabili di Greg Morgan e Steve McKenna, batteria e basso rispettivamente.
Si torna a rockeggiare con le cadenze blues di “Lost Soul”, il cui chorus riesce a stento ad aprire sulle oscure strofe un po’ troppo  alternative per la produzione dei Ten.
C’e’ ancora spazio per la ballad al chiaroscuro “Stay A While”, e per la conclusiva “Tearing My Heart Out”, che vorrebbe sperimentare il tentativo di avvicinare l’AOR dei Ten a sonorità più moderne, con le chitarre appesantite da una distorsione che le costringe ad abbandonare definitivamente i raffinati arrangiamenti.

In definitiva, se i Ten oggi hanno deciso di avventurarsi nel modernariato imperante in molte (ormai ex) AOR band, visto che questo significa semplificare e ridurre all’osso la presenza di soluzioni ritmiche di classe, non mi sento di approvare la scelta. Se invece si tratta di una sperimentazione fine a se stessa, credo che mi godrò con tranquillità questo bel disco, dal momento che è ancora legato per larga parte alla vecchia scuola, e aspetterò fiducioso per il prossimo.

Tracklist:

  1. Apparition
  2. Dreamtide
  3. Evermore
  4. Sail Away
  5. Temple of Love
  6. Even The Ghosts Cry
  7. Strangers In The Night
  8. Evil’s On Top In The World
  9. The One
  10. Lost Soul
  11. Stay A While
  12. Tearing My Heart Out

P.S.: per i collezionisti, la versione asiatica, edita da Avalon Japan, contiene la bonus track “It’s You I Adore”, struggente lamento per sola voce e tastiera. Da applausi.

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