Recensione: Rimfrost

Di Giuseppe Casafina - 19 Aprile 2016 - 1:50
Rimfrost
Band: Rimfrost
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2016
Nazione:
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50

Siamo nel 2016, l’evoluzione stilistica del concetto di musica si evolve, prende forma verso sagome a noi arcane e misteriose: la distribuzione e fruizione stessa della musica cambia nei modi, le tecnologie attuali di produzione musicale sono praticamente alla portata di tutti o quasi,insomma….il futuro avanza.

Ogni cosa ha un suo incedere onirico, che ci piaccia o no.

L’influenza del passato è inevitabile, ma bisogna fare in modo che questa rimanga tale, senza che prenda il sopravvento su noi stessi: motivo per cui personalmente ho sempre detestato le cover band, tribute band ed annessi.

In fondo, qualche genio anni fa su internet scrisse “In giro ci sono più cover band di Vasco che locali in grado di contenerle”….ma qui non stiamo parlando di Vasco, così come non stiamo parlando nemmeno delle sempre più innumerevoli band tributo a Deep Purple, Iron Maiden, alla disco music o chissà cos’altro (qui dalle mie parti ne gira anche una dei Cugini di Campagna, ve lo posso assicurare), bensì di metal, per di più estremo.

Quindi partendo dalle suddette, invitanti premesse, introduciamo i Rimfrost…e sorvoliamo sull’inversamente invitante copertina omonima con logo su sfondo nero, nel peggiore stile dei CD Promo dei primi anni 2000 che si usava ricevere tra le redazioni di riviste e webzine, solo stampata meglio.

I Nostri sono un terzetto svedese al terzo album, ben noti al sottoscritto che anni ed anni orsono acquistò, in un’era dove lo streaming era solo un sogno arcano, il loro disco di debutto ”A Frozen World Unknown”, album uscito addirittura sulla ‘oscurissima’ No Colours Records: altri tempi, anche se magari ciò è avvenuto al massimo 10 anni fa, eppure tutt’oggi quei momenti mi sembrano così distanti….

Ciò che rimembro invece esattamente come allora è lo sconforto (acquistai il disco affascinato dalla copertina, che al periodo mi prese alquanto) nel ritrovarmi una band spudoratamente clone degli Immortal: un disco indubbiamente piacevole, ben prodotto, ma con la stessa personalità di una tribute band degli Animaniacs.

Perché potrei parlarvi del disco di debutto oppure di questa terza, recentissima uscita discografica del terzetto norvegese, tanto sarebbe lo stesso: death/black nello stile che fu degli Immortal post -“At The Earth of Winter” (“Damned In Black” su tutti) quindi tamarraggine coatta a iosa, riff gelidi come una tempesta ma allo stesso tempo epici come una battaglia tra i ghiacci, nulla di più.

Persino la performance del cantante/chitarrista è quanto di più spudoratamente ‘Abbathiano’ ci possa essere in circolazione, per timbro ed interpretazione (a volte la ricercata somiglianza è abbastanza ‘agghiacciante’, termine decisamente in tema) e non solo, anche il timbro di chitarra non scherza, così come le percussioni, con uno stile che ricorda abbastanza da vicino, con le dovute proporzioni tecniche, quello di Horgh….i testi, ovviamente, sono come da tradizione incentrati su montagne, freddo ed epicità quindi nulla di diverso anche da questo punto di vista.

E dicendoci l’amara verità, tutta questa verosimiglianza ai tempi del debut forse poteva anche essere simpatica, ma ad essere sinceri, al cospetto di un terzo disco in studio comincia ad essere un pochino pesante, a maggior ragione se questo terzo disco ti appare sul mercato a distanza di ben 7 anni dal precedente “Veraldar Nagli” (del 2009), lasso di tempo che farebbe sperare chiunque ad una certa presa di coscienza stilistica.

Ed invece no, nonostante il considerevole lasso di tempo i Rimfrost continuano per la loro strada, quella di ‘Norther del Death/Black’ (band abbastanza ‘clone dei Children Of Bodom’ per il sottoscritto) e forse a loro starà anche bene così: nulla da eccepire, contenti loro contenti tutti no?

Già, contenti loro.

Ma per far contenti voi, tra questi solchi, sappiate che il vostro margine di apprezzamento salirà esponenzialmente in base al vostro apprezzamento per lo stile di Abbath & friends, nulla più e nulla meno.

E nonostante alcune leggere, furbe incursioni in territori melodic death metal come ‘Dark Prophecies’ e ‘Ragnarök’ (il cui testo di quest’ultimo cita i versi “…in the frozen world unknown”, in pratica una cover band che cita e celebra se stessa….) il risultato finale non si smuove dallo status di ‘band fotocopia’: non vi è il benché minimo briciolo di reale personalità e persino la produzione si rifà con le dovute proporzioni a quella degli ultimi lavori in studio della band norvegese.

Andando a sommare al tutto i cori in clean di ‘Cold’, in grado di scimmiottare le atmosfere in stile Bathory di “All Shall Fall”, la pessima ‘Witches Hammer’ (basata sui peggiori stereotipi dei peggiori brani degli ultimi dischi degli Immortal) e la conclusiva ‘Frostlaid Skies’, in puro stile I (insomma, qui si toccano tutte le sfumature della carriera di Abbath), direi che, pur non essendo disprezzabile in linea di massima, questo è un disco che ami oppure odi.

Quindi o dai 0 oppure 100, e francamente io resto a metà: ma se fate parte di quella porzione di pubblico che ha versato lacrime in stile Backstreet Boys il giorno in cui Abbath e Demonaz decisero di dividere le loro strade (si ironizza, suvvia), sappiate che la vostra ricerca di un’alternativa compatta senza timori di ‘separazioni imminenti’ è servita, perchè in tal caso questi svedesi saranno i vostri eroi personali!

Però, di mio, francamente mi chiedo a cosa diamine servano oggi, nel 2016, degli ensemble con simili obiettivi: vi prego, lasciate che almeno il mondo del metal estremo sia libero dalle tribute band (che ti producono persino dischi), vi scongiuro.

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