Recensione: Riset Bak Speilet

Di Tiziano Marasco - 24 Maggio 2014 - 2:07
Riset Bak Speilet
Band: Tusmørke
Etichetta:
Genere:
Anno: 2014
Nazione:
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77

 Se per le mani ti capita una band che si chiama Tusmørke (mörke è l’oscurità in norvegese), inizi già costruire corazze attorno alle orecchie. Se vedi una copertina nera con una fanciulla e i teschi sopra, peggio ancora. Se poi tieni conto che la band è sotto contratto per la Svart record (Svart = Nero), allora ti prepari già alla matematica certezza d’avere innanzi a te il frutto della fatica di quattro panda che venerano il maligno. Poi però noti la dicitura “prog” vicino al nome della band. La sommi al fatto che il disco si compone di 5 canzoni da oltre 8 minuti l’una. A questo punto cambi un po’ idea. Leggendo la presentazione della Svart poi, vieni a notare che i nostri fanno “una trasmissione diretta dalle nere foreste norvegesi” (sic.) e inizi davvero a perder la bussola.
 
Black progressive tipo gli Enslaved? Quattro simpatici adepti dei Borknagar del periodo tardo? I figli degli Spiral Architect? Folk black con assolazzi pinkfloydosi? Altro non riesci a pensare. Poi il loro debut, Riset Bak Speilet, va sul piatto per dare una risposta cui mai, e sottolineiamo MAI, saremmo potuti arrivare.
 
In buona sostanza, il semplice inizio di Offerpresten basta a scaraventare l’ascoltatore indietro di quarant’anni buoni. Oppure in un disco distribuito dall’italianissima black widow. Perché i nostri riprendono da vicinissimo la tradizione del prog acido e psychedelico dei favolosi anni Settanta, quello dei Black Widow inglesi per capirci. Un ottimo tappeto di flautini folkettoni supportati da onnipresenti tastiere acide e buoni riff di chitarra e basso (pur non essendoci un chitarrista in lineup).
 
Ciò detto, molto probabilmente i Tusmørke avrebbero preferito essere nati in inghilterra negli anni Cinquanta, così da poter finire nella colonna sonora di The Wicker Man vent’anni dopo. Almeno questo significa che il maligno, probabilmente, i Tusmørke lo adorano davvero. Ma se avete idea del film e della colonna sonora, avete già una buona idea di cosa in realtà propongano gli scandinavi.  Ancora, ma ve ne sarete accorti guardando la tracklist, davvero originale la scelta di utilizzare la madre lingua norvegese in tre episodi su cinque.
 
E sebbene si tratti quasi di un quasi revival, roba sentita e risentita, bisogna ammettere che i norvegesi sono davvero bravi a fare il loro mestiere. Offepresten e Black Swift sono dotati di un groove che vi farà godere come ricci. Gamle Aler Kirke fa in certo modo rivivere Kveldssanger degli Ulver in chiave prog sulla scia di grandiose atmoosferiche bucoliche. All is Lost è una composizione sbilenca e straniante che richiama alla mente certi Black widow, la suite finale poi, è un autentico gioiello. Si struttura come una song normale nei primi quattri minuti, poi svaria in lungo e in largo tra accelerazioni crimsoniane e sflautate alla Jethro Tull. Ah sì, mentre la canzone prosegue, varcato il minuto 6 potrebbe manifestarvisi nella stanza Satana, qualche divinità celtica o Lord Sommerisle in persona, ma niente di grave. Ah bhe, citando Lord Sommerisle, se non avete visto The Wicker Man, correte a porre rimedio. Il semplice fatto che la chiesa cattolica ne abbia osteggiato il doppiaggio in italiano basta come stimolante.
 
Se siete amanti del prog d’annata e passate i vostri giorni a rimpiangere i Camel o i King Crimson, fate vostro questo disco. A non sapere che è uscito una settimana fa, pensereste ad un opera del 1976 realizzata dal corrispettivo norvegese di Kaipa ed Horizont. Un disco che resuscita i morti, secondo le intenzioni della band ed emozioni davvero impensabili per noi sventurati figli degli anni ottanta. Da ascoltarsi preferibilmente a luglio, in aperta campagna, di notte.  
 
Tiziano Vlkodlak Marasco

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