Recensione: Saint Vitus

Di Michele Carli - 8 Marzo 2010 - 0:00
Saint Vitus
Band: Saint Vitus
Etichetta:
Genere:
Anno: 1984
Nazione:
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89

You’ve heard the legends
You know that I live out there
But in this modern world
It’s foolish to believe in such a scare

Saint Vitus – Zombie Hunger

Anno 1984: più di dieci anni erano passati dalla nascita del fatidico primo album dei Black Sabbath, eppure il frastuono della tempesta continuava a scuotere le fondamenta della musica. Dovunque spuntavano musicisti che avevano trovato l’ispirazione decisiva nelle note di Master Of Reality o Vol.4, e via via stava per nascere quel movimento musicale che si sarebbe battezzato con il famoso termine Doom Metal. In Svezia cominciavano a circolare i primi demo dei Candlemass, mentre negli U.S.A. stava per vedere la luce Psalm 9 dei Trouble e il cosiddetto “Ozzy d’oltreoceano” Bobby Liebling si preparava a far uscire il primo, vero full length dei suoi Pentagram, dopo gli interminabili problemi di line up degli anni ’70.
E nella assolata California, proprio nel posto più inaspettato, quattro ragazzi stavano per presentare alle masse un album fondamentale. Un album che allo sfarzo e ai colori vivaci del Glam contrapponeva un lugubre e grave nero opaco; un album che rispondeva alla velocità esasperata del nascente Thrash Metal con una lentezza disarmante. Era nato Saint Vitus.

L’obbiettivo non dichiarato era questo: fare proprie le atmosfere più oscure e sulfuree del Sabba Nero – come quelle presenti in Electric Funeral, Hand of Doom o Under The Sun – e accentuarle, estremizzarle, zavorrarle ulteriormente con dei riff pesanti come il granito.
A sentire il suono della chitarra di David Chandler nel riff di apertura della traccia omonima, si capisce già tutto. Il riccioluto chitarrista sembra adorare il fuzz con il potenziometro a fine corsa, cosa che dona uno spessore tutto particolare alle parti ritmiche. Il muro sonoro che si forma, accentuato anche dalla produzione low-fi, è impressionante: pastoso e nebbioso, ma anche ruvido come la carta vetrata. Un suono che verrà poi imitato ovunque, come anche i suoi assoli ai limiti del noise in furioso tremolo picking e con l’uso costante del wah wah a dare il tocco di psichedelia. A parte questo, come struttura la prima traccia risente ancora abbondantemente della NWOBHM, come testimoniato dal ritornello corale e dalla velocità ancora sostenuta, in classico stile heavy.
Anche in White Magic / Black Magic il discorso sembra essere lo stesso, con un ritmo hard rock e atmosfere più aperte, almeno fino all’isterico assolo di Chandler: poco dopo il tempo rallenta, la luce si abbassa ed incomincia la lenta e inesorabile discesa verso il basso. Una spirale che non si fermerà per tutto il resto del disco.

La prima tappa è la classica Zombie Hunger, carica di un testo orrorifico perfettamente sposato al riff luciferino di Chandler e ai ritmi quasi tribali di Armando Acosta. La lentezza e l’oscurità cominciano a essere parte integrante del songwriting e anche il minutaggio si allunga, per ribadire la pesantezza della proposta. Il picco si raggiunge, a mio avviso, con la successiva The Psychopath. Qua il buon Scott Reagers – e non me ne voglia il grande Wino Weinrich, che erediterà da lui le consegne sullo splendido Born Too Late qualche anno più tardi – si dimostra un cantante eccezionale, estremamente adatto al suo ruolo nei Vitus. Il suo modo di interpretare le canzoni, con quello stile drammatico e teatrale, in bilico tra voce cristallina e ringhio isterico, e soprattutto in bilico tra sanità mentale e pura pazzia, è quanto di più calzante ci sia per raccontare le storie nere di queste tracce. Uno stile che fortunatamente avrà modo di ribadire nel successivo e controverso Hallow’s Victim e, soprattutto, nel bellissimo Die Healing dieci anni più tardi.

Il disco si chiude con Burial At Sea, anch’essa estremamente lenta e soffocante a partire dal giro di basso introduttivo. Una traccia doom in tutto e per tutto, dura e opprimente, con il disperato Scott Reagers che chiede invano aiuto a Nettuno per preservarlo dalla sepoltura in mare. La canzone, nel suo tratto centrale, si concede anche una piccola deviazione verso la velocità, con un ritmo e un riffing addirittura vicini ai Celtic Frost a spezzare la monotonia, senza però dissipare l’alone di orrore e di ansia praticamente costante.

Saint Vitus non sarà di certo il lavoro più maturo – o più ricercato – del gruppo californiano, ma in ogni caso questo pezzo di storia non può e non deve essere sottovalutato. Saint Vitus va ascoltato con calma, con le candele accese e con l’Al Azif bene aperto sulle ginocchia. Ci penseranno loro a guidarvi giù, nelle profondità dell’abisso. Abbiate fede.

Michele “Panzerfaust” Carli

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Tracklist:
1. Saint Vitus
2. White Magic/Black Magic
3. Zombie Hunger
4. The Psychopath
5. Burial At Sea

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