Recensione: Seas Of Change

Di Roberto Gelmi - 10 Marzo 2018 - 10:00
Seas Of Change
Band: Galahad
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2018
Nazione:
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80

My Lords, Ladies and Gentlemen,
I respectfully request that you be upstanding
For I give you total confusion served up
with a smattering of understated incredulity
Topped off with a heady dose of utter bemusement

A distanza di un anno dal full-length Quiet Storms, tornano i figli di Lancillotto con il loro decimo studio album, Seas Of Change, che si presenta raffinato già dall’inabissante artwork opera di Paul Tippett. Ne ha fatta di strada il gruppo inglese, nato nel 1985 come cover band (ma non solo) ed è poi entrata di diritto nel novero di band neo-prog. quali IQ, Pendragon, Haze e Pallas. Se il loro primo platter è del 1991 (Nothing Is Written), disco autoprodotto che ottenne buon successo di vendite, in tempi più recenti, dopo un breve iato, nel 2015 è uscito un doppio cd retrospettivo When Worlds Collide, inteso a celebrare i trent’anni di attività del combo anglosassone, il quale dimostra uno stato di salute invidiabile. In Quiet Storms troviamo addirittura Karl Groom (Threshold) in line-up come chitarrista e il sodalizio sarebbe potuto continuare, se non fosse per il figliol prodigo Lee Abraham, che torna nelle schiere dei Galahad non più basso in spalla, ma da chitarrista, per sostituire lo storico Roy Keyworth. In realtà il contributo del nuovo addetto alle 6-corde non è stato seminale per il platter: gran parte delle atmosfere dell’album sono opera, infatti, del key-wiz Dean Baker (che si destreggia tra mellotron, moog, hammond, pad e sequencer), mentre l’apporto di Abraham è avvenuto in seconda battuta, così quello del bassista Tim Ashton (uscito dalla formazione nel 1990 e di nuovo reclutato dopo la morte di Neil Pepper nel 2011). Groom resta in veste di produttore e il suo sempre ottimo lavoro al mixaggio si sente. Con simili premesse, oggi il valore aggiunto del gruppo inglese sta, inoltre, nel saper proporre un felice connubio di sonorità pseudo-pop con altre più tirate, così come l’identità del combo cammina sulla thin line tesa tra passato nostalgico e nuovo incombente.

Ci vuole coraggio per proporre un album basato su di un’unica title track sontuosa, che da normale song di sette minuti è lievitata fino a raggiungere la durata di tre quarti d’ora, articolandosi in dodici movimenti, che continua la favola del neo-progressive come sottogenere colto della musica rock. Il concept sotteso riguarda l’attuale situazione geopolitica dell’Inghilterra, tra Brexit e incertezze europeiste, ma il punto di vista della band in merito resta super partes, limitandosi a constatare “that the whole issue has benn divisive and disruptive to the political and social status quo”.

Dopo un sample recitato, l’avvio ha tinte orchestrali e dominano le tastiere. Nei primi movimenti si respira un’atmosfera sospesa, con tanto di voci eteree, flauto e parti di clavicembalo. La prima “esplosione” avviene all’inizio del sesto minuto, tuttavia la suite ha il raro pregio di essere variabilmente cangiante e solo dopo 180 secondi iniziano il loro lungo percorso la batteria di Spencer Luckman e i tasti d’avorio di Dean Baker. Tutto ricorda il sontuoso sound divertito degli Yes, ma con un tocco di mordente in più (siamo pur nel 2018). Superata una sezione strumentale che ricorda i Pär Lindh Project, attorno al primo quarto d’ora di minutaggio la composizione si adagia in una parentesi ariosa e pop, preludio all’ennesimo giro di boa con comparsa di tempi dispari e cadenze ossessive, vero momento indiavolato della title-track, che non poteva mancare pure di simili atmosfere aspre. In fase di raccordo tra i vari movimenti le tastiere sono fondamentali, così senza soluzione di continuità abbiamo superato la metà dell’album senza nemmeno accorgercene. Dopo parti corali ieratiche e un synth di organo altrettanto maestoso, ritroviamo il sample iniziale e il leitmotiv marino che fa da cornice all’album. I testi parlano di “political confusion, delusion, deceit”, mentre le sonorità arricchite da alcuni exploit chitarristici richiamano i momenti catartici dei Threshold. Prima dell’ultimo movimento, c’è spazio anche per una parentesi istrionica e ritmata che farà faville in sede live. Il finale circolare presenta le ultime enigmatiche parole scandite da Nicholson, velate di umbratile ottimismo e necessità di cambiamento. Il titolo dell’album vorrà pur dire qualcosa…

In definitiva un bel lavoro quello dei Galahad, che farà contenti i fan del prog rock d’antan, ma anche le nuove leve di ascoltatori abituati al sound di band come Arena e Spock’s Beard. La marcata Britishness di Seas of Change, concordiamo infine con la band, non è un punto a sfavore del platter, semmai sua caratteristica peculiare. Unico difetto la difficoltà d’ascolto, difficile skippare al minuto esatto che si vuole risentire e le due bonus track (movimenti espunti dalla suite in versione editata) non bastano: i Dream Theater furono più lungimiranti con Six Degrees of Inner Turbulence, così i TFK di Flower Power.

Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)

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