Recensione: Sermon ov Wrath

Di Daniele D'Adamo - 1 Marzo 2017 - 0:00
Sermon ov Wrath
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2017
Nazione:
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55

Gli AntropomorphiA fondano le loro radici sino al 1989, uno degli anni cruciali per l’evoluzione del metal estremo. Il death muoveva i suoi primi passi, e la formazione olandese ne finì affascinata sì da assumerlo come stile per esprimere la propria musica.

Sono passati ventotto anni, e gli AntropomorphiA sono sempre qui, sulla cresta dell’onda, con il quarto full-length in carriera, “Sermon ov Wrath”. Ultimogenito di una produzione discografica poco abbondante, tenuto anche conto del buco corrispondente al primo decennio del terzo millennio, ove la band è stata inattiva.

Difficile aspettarsi delle grandi novità, nell’album. Il sound della band Tilburg si è consolidato a mano a mano che la carriera della band stessa è progredita nel tempo. Nel senso che si è stabilizzato attorno ai dettami primigeni del death metal, lasciando da parte contaminazioni ed evoluzioni varie.

Gli AntropomorphiA suonano diretto, in maniera frontale. Senza fronzoli e arricchimenti vari.

Molto spazio a composizioni classiche, quindi, in cui l’obiettivo principale è sostenere con quanta più forza possibile il mero assalto sonoro. Il che ovviamente non deve essere considerato un difetto, poiché per dar vita a del buon death metal non è detto che ci si debba lambiccare i neuroni sino allo sfinimento.

Sfortunatamente, almeno per il combo della North Brabant, di spunti davvero interessanti, in “Sermon ov Wrath”, non ce ne sono poi tanti. Anzi. Se si considera che l’episodio più coinvolgente è rappresentato dal breve intermezzo strumentale ‘Ad Me Venite Mortui’, la situazione complessiva non appare delle più felici. Una volta fatto l’orecchio allo stile, adulto, questo sì, dei Nostri, l’ascolto “Sermon ov Wrath” perde rapidamente d’interesse, giacché è ben chiaro cosa si celi dietro l’angolo. Manca, in parole povere, l’effetto sorpresa. Già alla fine del primo passaggio, più o meno, il platter ha lasciato intendere quale sia il proprio contenuto.

Oltre al menzionato intermezzo, si salva ‘Crown ov the Dead’, brano lento, avvolgente, coinvolgente, con i suoi cori femminili dissonanti. Che danno un tocco noir, gotico, a un sound altrimenti prevedibile sin nei dettagli. Regalando, anche, un po’ di visionarietà, soprattutto per quanto riguarda il legame musica / disegno di copertina.

Per il resto regna abbastanza indisturbata la noia, micidiale nemica degli ensemble privi del leggendario quel qualcosa in più. Che a questo punto è chiaro, gli AntropomorphiA non hanno.

Date le premesse della nobile casa discografica, che alimentavano speranze per qualcosa di assolutamente interessante, si può benissimo parlare di clamoroso flop.

Daniele “dani66” D’Adamo

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