Recensione: Seventh Son Of A Seventh Son

Di Diego Cafolla - 1 Ottobre 2002 - 0:00
Seventh Son of a Seventh Son
Band: Iron Maiden
Etichetta:
Genere:
Anno: 1988
Nazione:
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100

Facciamo un passo indietro, era il 1986, gli Iron Maiden avevano dato alle stampe Somewhere in Time, un album che all’epoca costo’ l’accusa di ‘tradimendo’ dai fan più tradizionalisti a causa dell’utilizzo massiccio di tastiere e chitarre sintetizzate, album che venne successivamente rivalutato e considerato tra i migliori della produzione targata Maiden. A due anni di distanza usci’ Seventh son of a Seventh son, l’unico concept album prodotto dalla band, che manteneva alcune coordinate sonore del precedente album (come l’utilizzo delle tastiere) ma che segnava comunque il ritorno ad un suono più ruvido ed heavy e rappresento’ probabilmente il picco creativo dei 5 Inglesi di ferro. L’album è indubbiamente l’opera più ambiziosa della band, che riesce ad unire in maniera pressochè perfetta aperture melodiche, potenti cavalcate e un raffinatissimo songwriting. L’album in questione si apre con Moonchild, uno dei pezzi più aggressivi targati Maiden dove le vocals del grande Bruce Dickinson e lo strepitoso basso di Harris la fanno da padrone. Il testo proviene dal ‘Liber Samekh’ contenuto nel libro di Aleister Crowley da cui la canzone prende il titolo. La seconda traccia dal titolo Infinite Dreams è un vero e proprio capolavoro Heavy! Dopo un inizio lento e dalle atmosfere sognanti il pezzo decolla e ci trascina in un vortice incredibile di emozioni. Riff ed assoli duellano per tutta la parte centrale del brano (grande prestazione di Murray e Smith alle chitarre) e come sempre impeccabili il basso e la voce.Si prosegue con Can I play With Madness che risulta a mio parere il pezzo più debole (stiamo comunque sempre parlando di un grande pezzo) del lotto. La song si discosta dall’atmosfera epica ed evocativa dell’album risultando decisamente più ‘easy’ nelle melodie e nel ritornello. A questo punto si arriva ad un altro brano da antologia: The Evil That Men Do. Ispirata nelle lyrics al ‘Giulio Cesare’ di Shakespeare, il brano in questione è diventato un megaclassico della band grazie alle sue stupende melodie ed al fantastico ritornello, ormai punto fisso di tutti gli show tenuti dalla band dal’uscita dell’album in poi. Alla traccia numero 5 troviamo quella che a mio parere è tra le più grandi canzoni heavy metal di tutti i tempi ovvero la title track Seventh Son Of A Seventh Son.Il pezzo è permeato da una grandissima carica drammatica durante tutto l’arco dei suoi 9 minuti di durata, in un crescendo di emozioni incredibile. In questo brano troviamo assoli perfetti e taglienti, un basso incredibile, la superlativa prova vocale di Dickinson e una prestazione da parte di Nicko McBrain veramente grandiosa.Si prosegue con The Prophecy, altro grande pezzo che inizia in sordina e poi esplode in una colata di metallo fuso. Da notare la stupenda outro acustica del brano. La traccia successiva è un altro highlight di questo grandioso disco, la mitica The Clairvoyant . Inizia con quello che probabilmente è uno dei giri di basso più famosi della storia del Metal a sottolineare ancora una volta il genio di Mr. Steve Harris, riff di chitarra memorabili e prestazione vocale da urlo che consegneranno questo brano all’olimpo metallico. Il disco si chiude con Only The Good Die Young, un bel brano tirato e teso (forse non geniale ma comunque bello) con in evidenza la prestazione al basso di Harris. Questo disco come già detto rappresenta il più alto picco creativo di questa band immensa e di tutto il metal prodotto fino ad oggi. Un disco stupendo, immortale e probabilmente irripetibile. Non dovrebbe esistere metallaro che non lo abbia tra i suoi CD’.non aggiungo altro!

Tracklist:
1) Moonchild

2) Infinite Dreams Harris

3) Can I Play with Madness

4) The Evil that Men Do

5) Seventh son of a Seventh Son

6) The Prophecy

7) The Clairvoyant

8) Only the Good die young

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