Recensione: Sidereal Light – Volume One

Di Daniele D'Adamo - 20 Gennaio 2018 - 16:05
Sidereal Light – Volume One
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2018
Nazione:
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90

Il black è, forse, fra tutti i sottogeneri metal, quello che si è incuneato maggiormente nel sottobosco di tutti i Paesi del Mondo. Esso si trova in lande apparentemente lontanissime, come clima, da quelle natie, cioè quelle del Nord Europa, nonché in territori ostili alle tematiche anti-religiose che spesso ne accompagnano la musica.

Così, capita che in Sud Africa esista una realtà ben consolidata che si chiama Crow Black Sky, quartetto esistente dal 2009 e che, in nove anni di tempo, ha dato alla luce due full-length: “Pantheion”, 2010, e “Sidereal Light – Volume One”, 2018.

I Crow Black Sky suonano atmospheric black metal, il quale altri non è che black metal irrobustito del suono delle tastiere, synth, programmazioni, orchestrazioni e quant’altro necessario a sviluppare un’intensa forza visionaria, una travolgente allucinazione  collettiva.

“Sidereal Light – Volume One”, come lascia intendere il titolo, rappresenta un lungo percorso attraverso le mirabolanti bellezze del Cosmo. Non essendo una one-man band ma anzi avendo nelle sue fila quattro musicisti, compreso – soprattutto – il batterista, il combo di Cape Town può spingere sull’acceleratore alla massima velocità possibile, irrobustendo la sua esplosiva energia ritmica sino quasi all’intollerabile, per l’orecchio umano. Questo rappresenta il focus delle song del platter, che è quello di spalancare le porte dell’immaginazione per osservare pianeti, soli, galassie, nebulose, stelle binarie e gli altri meravigliosi corpi celesti che popolano, come fiotti di luce sulle onde del mare, l’immensità dello spazio siderale.  Perché solo quando i blast-beats sfondano la barriera dell’impossibile è dato di entrare nello stato di trance da hyper-speed, una condizione dell’esistenza e della materia ove i contorni della realtà sfumano a mano a mano che la velocità e le immense strutture melodiche aumentano di intensità, come accade nella meravigliosa suite ‘To Fathom the Stars’. In essa, il disperato screaming di Ryan Higgo accompagna la sezione delle chitarre e del drumming lungo coordinate quadridimensionali, obbedienti alle equazioni della relatività. La mente, allora, quasi si dissolve, espansa, allungata, strappata in direzione ove esiste solo la percezione di materia extraterrestre. Le dolci e ariose melodie scappano dalle mani di chi vorrebbe farle sue per sempre, per fuggire via, lontano, spinte dalla terrificante furia dei blast-beats di Lawrence Jaeger. Così, il viaggio supera i parametri conosciuti dall’Umanità e si dilunga intersecando wormhole e buchi neri per proiettare sull’immaginario echi di mondi lontani, appartenenti a quadri stellari sconosciuti. Forse, là dove è cominciato il tutto.

L’imperiosa, monumentale armatura che regge il sound dei Nostri è come un’astronave che percorre distanze abissali con la velocità del pensiero, istantaneamente. Il ridetto screaming di Higgo è il lamento della condizione umana, intrappolata in un pianeta morente, senza speranze per un futuro che non sia la completa annichilazione. Allora, solo con la vitalità creativa dell’atmospheric black metal si può provare a volare, a scagliare il pensiero nello spazio intergalattico in cui rari atomi vivono quasi allo zero assoluto, per ritrovare, chissà dove, altre forme di vita basate sul carbonio.

‘Lightless, Lifeless’, e lo scempio delle membra ha la sua attuazione, per liberare il pensiero dalle pochezze della fisicità delle cose tangibili. Difficile spingere con più veemenza e rotazioni cinetiche: si è raggiunta la massima rapidità dell’esecuzione umana e allora, di nuovo, l’anima si solleva dal corpo per percorrere distanze pressoché infinite, mai affrontabili con i più avanzati miracoli della tecnologia terrestre. Lo stordimento rallenta l’attività cardiaca per consentire di penetrare più a fondo possibile la tempesta sonora caricata dalla sterminata irruenza di Lamprecht e compagni.

Inenarrabili le maestose armonie di ‘Veils’ che, come sottoposte a una pioggia di neutrini, si riducono di ampiezza per adattarsi alla mostruosa andatura del brano, altra song-capolavoro, che, come un satellite, pare sorvolare pianeti lussureggianti e puri. A caduchi rallentamenti si susseguono impressionanti accelerazioni, che entrano in risonanza con il corpo, accentuandone la predisposizione a unirsi con un disco che non può non essere ascoltato, vissuto, metabolizzato e che non potrà essere dimenticato.

Immensi.

Daniele “dani66” D’Adamo

 

 

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