Recensione: Slaves to the Greed

Di Daniele D'Adamo - 2 Novembre 2016 - 0:14
Slaves to the Greed
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2016
Nazione:
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92

Modern melodeath.

Cioè, il discendente diretto del gothenburg metal, forma tipologica divenuta leggendaria del più generale melodic death metal. Gli anni passano inesorabili, e tutto progredisce, si evolve. Anche il gothenburg metal, ormai, ha più di vent’anni, ed è giunta quindi l’ora di trasfondere il proprio spirito in una linea di discendenza. Nel modern melodeath, appunto.

Sono già parecchie le band che hanno eseguito questo passaggio musicale, caso strano, alcune delle quali italiane come i Fragore e i The Stranded. Ma ci sono anche gli spagnoli Rise To Fall e Nodrama. Gente del Sud dell’Europa, insomma, che ha dato vita ad album più che degni, senza tuttavia centrare l’eccellenza assoluta.

Ci voleva qualcuno nato e cresciuto a cavallo del Circolo Polare Artico, allora. E quel qualcuno è arrivato. Dalla Finlandia, da Helsinki. Sono i Dead End Finland. I quali, con il loro nuovo e terzo full-length, “Slaves to the Greed”, irrompono sul globo terracqueo per definire, una volta per tutte – e molto meglio di come avesse già tentato nell’impresa con “Season Of Withering”, secondo lavoro del 2013 – , cosa sia il modern melodeath. Ma, soprattutto, per esplorarne in profondità le enormi potenzialità emotive che esso può offrire, a chi si assume la responsabilità di interpretarlo.

Responsabilità, sì, poiché solo apparentemente il modern melodeath è un genere facile, leggero, solo accattivante. Elaborato appositamente per agganciare il mercato mainstream del metal orecchiabile, si pensa. E si pensa male. Molto, male. Poiché “Slaves to the Greed”, seppur rigurgitante armonie stellari, è pesante come un macigno. Possente, gravoso, poderoso nell’incedere. Urticante, quando il growling di Mikko Virtanen prende per mano la situazione e si addentra nei territori dell’umana aggressività. Roba metal, roba pesante, roba massiccia. Roba che esige una preparazione ed esperienza metallara di lungo corso, sennò assume il carattere della non ascoltabilità, per timpani non abituati a essere messi sotto rovente pressione. Niente centri commerciali e supermercati, insomma.

Ma, soprattutto, il modern melodeath necessita di grande classe compositiva, per esplodere, per saltare in aria, per far rizzare i peli sulla pelle, per far scendere brividi caldi/gelati lungo la schiena. E i Dead End Finland lo fanno. Alla grande. Subito. ‘Through the Echoes, Future & Past’ (introdotta da imperiali orchestrazioni) e ‘Inside the Void’ sono due song mostruose. Immani nella loro melodiosità, tali da restare per sempre nel cuore, nell’anima, nella mente, nei ricordi di un uomo morente. Incredibili nella loro antitetica quanto elegiaca contrapposizione fra refrain aulici e strofe rabbiose. Soprattutto ‘Inside the Void’, cyber-capolavoro assoluto, il cui ritornello stordisce per la sua irresistibile armonia, concepita per far volare, per indurre a sognare, per struggere il cuore, per strizzare le vene, per spingere le lacrime a sgorgare. Volare, sui mille laghi delle lande finlandesi, più in alto, sempre più in alto, sulle ali del vento cosmico di ‘Fragments of the Innocent’ terzo masterpiece di fila. Sino a lambire i confini dell’atmosfera, a cavallo delle aurore boreali.

Immagini fantastiche, trasognanti, commoventi nella loro straordinaria energia emozionale. Impresa che, a oggi, in quest’ambito, riesce solo e soltanto ai Nostri, il cui DNA deve esser zuppo a saturazione di talento compositivo. Che, non poteva altrimenti, si assomma a una professionalità assoluta nella costruzione di un sound cristallino, pulito, preciso, esplosivo, energetico.

Perfetto.

Stordente di tastiere ed elettronica in maniera tale da far fuorviare l’attenzione verso il cyber death metal. Ma non è così. Seppure il termine cyber sia già stato citato in occasione del must ‘Inside the Void’, e s’insinui parecchio anche in brani come ‘Screaming Back to Hell’ (altro capolavoro di songwriting), il mood di “Slaves to the Greed” è costantemente centrato sul melodic death metal e non su altro. O meglio, sul modern melodeath. Le cime imperiose delle montagne di riff di ‘5000 Voices’, del resto, spezzano le reni soltanto osservandole al tramonto di un paesaggio artico tinto di rosso e arancione; maciullano la resistenza mentale per aprire la mente medesima al lavaggio del cervello con l’immane, epico, potentissimo chorus.

L’incipit ambient/trance di ‘The Devil Inside Me’ potrebbe nuovamente far tornare i dubbi sopra dipanati sul reale peso dell’elettronica sul platter. Ci pensano tuttavia Virtanen con la sua ugola scabra e Santtu Rosén con i suoi titanici riff, a premere la cassa toracica con la ferale mortalità del death metal, ancorché degli Angeli. Un mid-tempo dalla pesantezza esasperata, dura da sopportare, da contrapporre colpo su colpo alle meteore di metallo fuso che precipitano nel cielo, immaginario teatro della canzone.

“Slaves to the Greed” non è soltanto un capolavoro di modern melodeath. È, il modern melodeath. Tutti gli altri dovranno discendere da esso, ma non lo supereranno mai. Troppa… troppa… troppa… la classe dei Dead End Finland.

Troppa.

Per chiunque.

Daniele D’Adamo

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