Recensione: Sweet Oblivion feat. Geoff Tate

Di Fabio Vellata - 15 Giugno 2019 - 8:00
Sweet Oblivion
79

Nozione banale e praticamente scontata: Geoff Tate ha una grande voce ed è, tuttora, uno dei migliori interpreti in senso letterale, presenti sulla scena metal e prog metal.

Abbiamo fatto una grande scoperta, vero? Sicuramente no.
Le corde vocali di mister “Mindcrime” non sono di certo state mai messe in discussione. Bravura, tecnica, estensione, capacità interpretativa: tutti elementi da sempre ben presenti nel bagaglio di Tate, considerato una sorta di totem intoccabile sin dai tempi dei fenomenali Queensrÿche degli anni ottanta.

Meno. Molto meno. Decisamente molto meno invece, sono state le qualità di songwriter “solista” riconosciute all’artista americano, spesso vittima di elucubrazioni parossistiche che lo hanno condotto ad esasperare le ultime esperienze con i Rÿches in un pastone tedioso e sconclusionato. Idee contorte, senza capo ne coda, foriere di una cifonata cataclismatica come l’osceno “Frequency Unknown” (forse il disco più brutto degli ultimi dieci anni) e solo in parte risollevate con il progetto Mindcrime, non convincente all’esordio, meglio focalizzato nel suo prosieguo declinato nell’arco di altri due album.
Due cose che portano, inevitabilmente, ad una conclusione facile ed immediata. Se Tate ci mette la voce e qualcuno in possesso delle giuste abilità, offre la proverbiale “penna”, può nascere ancora qualcosa di buono.

Ed è, in effetti, proprio quello che pare essere accaduto con questo improvviso ed estemporaneo Sweet Oblivion, un side project che ha la parvenza di esser studiato appositamente dai piani alti di Frontiers per rilanciare l’immagine in parte appannata di Tate, finalmente alle prese con brani consoni, attagliati alla perfezione alle sue corde vocali, vicini allo stile che lo hanno reso caro alla gran parte dei fan di heavy e prog metal.
Un merito gigantesco va ascritto all’ottimo Simone Mularoni (DGM), vero motore pulsante alla base dei Sweet Oblivion: sue le chitarre (una delle parti migliori di tutto il cd), sua l’eccellente produzione, sue le canzoni, scritte pensando probabilmente un po’ ad “Empire” ed un po’ a “Rage for Order“, buone in ogni caso, per stanare il talento innato di Tate, lasciarne vibrare la voce su cori declamati ed intensi, acuti stellari e visioni elegantemente metallose.

Pezzi che il più delle volte convincono ed appaiono ben assortiti. Soprattutto focalizzati sul singer statunitense in modo da farlo risaltare al meglio.
La doppietta iniziale “True Colors” e “Sweet Oblivion” lo mette in chiaro dapprincipio. Scattanti, taglienti, con chitarre in evidenza ma pure una notevole profondità nei suoni e nelle ambientazioni, unite a quel tocco di metal visionario e vagamente evocativo che conferisce personalità ed arrotonda le atmosfere.
Per nulla peregrino insomma, accostare lo stile proprio a quello dei Queensrÿche, termine di paragone ultimo e riferimento principe di questo “Sweet Oblivion“, figlio per nulla illegittimo della grande band di Seattle.
Momenti buoni che si rincorrono anche nelle melodiche ed orecchiabili “Behind You Eyes”, “A Recess from My Fate” e “Transition“, sino a giungere a “Disconnect” e “Seek The Light”, tracce che potrebbero essere estratti derivanti dalle session di “Promised Land“, tanto è affine il loro stile con quello del celebre album edito nell’ormai lontanissimo 1994.

Senza perdere altro tempo, definiamo insomma “Sweet Oblivion” per quello che abbiamo ascoltato in un buon numero di passaggi ripetuti.
Ottima qualità di scrittura e di suono, squisita interpretazione e piacere d’ascolto complessivo decisamente notevole.
Non potrà essere descritto come l’erede naturale della titanica grandezza dei migliori Queensrÿche, pur tuttavia, se all’epoca, al posto di album fiacchi ed incomprensibili come “Q2K”, “Tribe” ed “American Soldier” fosse uscito un cd come questo, probabilmente la rovinosa deriva dei Rÿches d’inizio duemila non sarebbe davvero mai esistita.

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