Recensione: Tetragrammaton

Di Daniele D'Adamo - 9 Maggio 2013 - 17:09
Tetragrammaton
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Anno: 2013
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82

 

«Robin Kok: fretted and fake fanned fretless bass, vox and howling insanity – Ivo Hilgenkamp as The New Guy: guitars (tuned), vox and unalloyed sublimity – Michiel Dekker as The Teacher: guitars (untuned & retuned), Kahler misuse, vox and supreme inanity – Sjoerd Visch: drums, bastinado, piledrivers and preternatural serenity – Carsten Altena aka The Macrobiotic Offline Member: Stalin organ, mammoth orchestral stabs and fiddling vanity»
 

Con dei war-name così, e considerando pure i titoli delle canzoni, “Tetragrammaton” potrebbe sembrare come l’ennesimo tentativo di percorrere la strada dell’ironia applicata al metal estremo. Invece, al contrario, i The Monolith Deathcult fanno sul serio. Dannatamente sul serio, in materia di musica. Del resto, la formazione olandese vanta – oltre a una carriera decennale – una produzione discografica di tutto rispetto, costituita da ben cinque full-length (“The Apotheosis”, 2003; “The White Crematorium”, 2005; “Trivmvirate”, 2008; “The White Crematorium 2.0”; “Tetragrammaton”, 2013) di cui l’ultimo, per l’appunto, è l’oggetto della presente recensione.

“Tetragrammaton”, è bene specificarlo subito, è uno spaventoso concentrato di furia devastatrice, resa al massimo della potenza possibile grazie a una produzione semplicemente esplosiva; e a una forza fisica e mentale, posseduta da Robin Kok e compagni, che trova pochi altri riscontri, in giro. I cinque figuri, difatti, pestano sui propri strumenti come dei dannati, generando pulsazioni sonore intense come quelle prodotte da una deflagrazione termonucleare. Spesso relegato al ruolo di semplice comprimario, è proprio il basso di Kok a fungere da sostegno a un sound assolutamente debordante; raffigurandosi come rimbombante protagonista in tutte le cuciture ritmiche e armoniche che legano assieme l’enorme quantità d’informazioni musicali convergenti nell’album.    

Informazioni che, all’opposto di quanto accade spesso e volentieri, non snaturano di un millimetro quello che è lo stile primordiale dell’ensemble di Kampen: death metal. Death metal massiccio, fragoroso, monumentale nella sua capacità di sconquassare le molecole atmosferiche. In grado di rallentare sino a slow-tempo dal gravame quasi insostenibile per poi addentrarsi nelle folli lande ove regnano i blast-beats. Il tutto, condito a profusione da contaminazioni di tutti i generi, le specie e i suoni che la fantasia possa suggerire: black metal, thrash, US power metal, sinfonie, ambient, trance, rap, voci femminili, fischietti (sic!), Muezzin… senza, però, che queste caleidoscopiche pennellate di colore distolgano la concentrazione dei Nostri nel mulinare nell’aria il loro devastante death metal.

Spettacolare, nondimeno, la vena compositiva dei tulipani, abile a rendere totalmente godibili song la cui lunghezza va oltre la media del genere. Un’ora complessiva di durata non è poco, considerato la durezza della proposta, ma va quasi da sé (a questo punto…) constatare che la noia non farà mai capolino, fra le tracce del platter. A parte il fatto che nonostante la ricchezza della carne al fuoco, quest’ultimo possiede una coesione stilistica non da poco – tale da rendere del tutto personale lo stile proposto dai The Monolith Deathcult – i particolari di cui è piena zeppa la pietanza da essi cucinata dona al platter medesimo una longevità notevole. Longevità che vive di scoperte e rivelazioni a ogni ascolto, le quali non minano in nessuna occasione la coerenza artistica posseduta dagli orange. Ovviamente è impossibile descrivere ciascun pezzo, poiché ne verrebbe fuori un tomo enciclopedico. Basta “Svupreme Avantgarde Death Metal”, per fungere da esempio. Dopo l’incipit narrato con uno stentoreo tono epico, si scatena un riff terremotante, violentissimo, trascinato da un drumming che farebbe scapicollare anche una statua di bronzo. L’aggressivo growling di Kok e il bombardamento operato dalla sua quattro corde s’intonano alla perfezione con l’incalzante andamento della song, trafitta da cori leggendari, laceranti soli della lead guitar, rallentamenti, accelerazioni, orchestrazioni, break ‘thrash’n’rap’, scatenate melodie. Un vero sconquasso per palati fini!      

Per la sua poliedricità ma anche per la sua fedeltà alle coordinate primigenie del death metal, “Tetragrammaton” non potrà che fare la felicità di una larga fetta di metalhead: dai deathster più intransigenti agli amanti del power metal melodico. Con ciò, palesando un robusto talento insito nei The Monolith Deathcult nel saper soppesare con destrezza il giusto equilibrio fra tradizione e innovazione.

Daniele “dani66” D’Adamo
 

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