Recensione: The Approaching Roar

Di Daniele D'Adamo - 3 Febbraio 2019 - 10:45
The Approaching Roar
Band: Altarage
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2019
Nazione:
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Terzo full-length per i misteriosi Altarage che, in maniera antitetica rispetto alla solarità del loro Paese di origine, la Spagna, vivono in un buio universo, dominato dalle tenebre e dall’oscurità. Assai indicativa, in tal senso, la copertina di “The Approaching Roar”, il neonato, raffiguranti alcuni corpi galleggianti a testa in giù, rivolti e diretti verso gli abissi di un mare grigio dalle ombre inquietanti.

Una raffigurazione forte, ricca di significati che ciascuno può spiegare a modo suo; inevitabilmente, e su questo c’è certezza, convoglianti allo stile musicale adottato. Che è un death metal grezzo, rozzo, primitivo, dalle componenti arcaiche rimandanti all’epoca in cui il metallo della morte assumeva una forma ancora indistinta, non perfettamente delineata nella sua diversità dai padri fondatori, e cioè black e thrash metal. 

Anche in questo caso, tuttavia, seguendo una specie di moda underground generalizzata un po’ ovunque, tesa a tenersi ben distinta dalla vecchia scuola per dipingere uno stile vintage se non addirittura retrò, dotato di stilemi autonomi, univocamente definiti per tratteggiare, con decisione, una tipologia musicale a sé stante, che potrebbe, giusto per esemplificare, essere individuata con neo-definizioni quali archaic death metal o primordial death metal. Sono solo modi, questi, per dare al volo l’idea di quale sia l’approccio musicale alla questione da parte degli Altarage

“The Approaching Roar” parte violento: l’opener-track ‘Sighting’ svela subito l’anima dannata dei Nostri, votata alla dissoluzione della mente con riff dissonanti corroborati da una sezione ritmica terremotante, che dà l’idea della totale annichilazione. Ovviamente i confini dei blast-beats sono costantemente superati per consentire al combo di penetrare nei territori della follia. Il roco growling del vocalist è quasi in secondo piano (‘Knowledge’), diffuso su un impianto sonoro enorme in grado di erigere un cupo muraglione di suono. Grazie, anche, al rombo indistinto del basso, il cui compito è quello di tessere un tappeto senza inizio né fine in maniera tale da fornire un elemento fondamentale su cui erigere l’immane struttura di un sound pieno, possente, a tratti devastante.  

Song dopo song, emerge uno stile certamente non originario ma comunque caratteristico di una tanto voluta quanto brutale involuzione formale che, inoltre, comprende dei tratti tipici di altre famiglie quali il doom (‘Urn’) e lo sludge (‘Inhabitant’). Elementi non secondari anzi primari per scatenare visioni di morte, di terre senza sole coperte da una pesante fuliggine scura che riempie bocca, narici e orecchi. Una costante, questa, che si ripete in tutti i brani, facendo sì che l’immersione in una mota irrespirabile e densa di marciume sia completa, totale, definitiva. 

Una più che buona capacità di scatenare visioni di eoni passati, ove la Terra si stava formando dal miscuglio di materia da cui si è successivamente compressa per formare una crosta rocciosa percorsa da infinite gallerie sotterranee, dall’atmosfera irrespirabile, da percorre assieme al combo basco. Ondate su ondate di suono ad alto contenuto energetico soffocano chi ascolta, gli stringono la gola, afferrata dal rifferama dirompente di brani fra i quali pare appropriato all’uopo citare la nebulosa ‘Cyclopean Clash’.

Con uno stile così particolare, così importante nell’economia dell’ensemble di Bilbao, così immersivo, è quasi inevitabile che le tracce assumano una fisionomia ben chiara, anzi scura, ma immutabile al variare delle tracce medesime. La gigantesca ‘Chaworos Sephelln’, così come la sconquassante ‘Werbuild’, rappresentano davvero una delizia per chi si lascia trasportare dalla veemenza del gruppo iberico. Ma, purtroppo per lui, nel suo insieme tecnico-artistico, esse non si discosta poi granché, dagli altri abominevoli episodi del disco. Difficile stabilire se tutto quanto sia imputabile a una mancanza di idee diverse da quella di base, oppure di un segno particolare congenito a uno stile così particolare, così singolare. 

Per questo, “The Approaching Roar” non può che adattarsi a una fetta ben precisa di appassionati del metal estremo, la cui priorità è quella d’intanarsi nel meandri più nascosti del proprio Io. In questo, allora, gli Altarage sono bravissimi.
   
Daniele “dani66” D’Adamo

 

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