Recensione: The Code Is Red… Long Live The Code

Di Nicola Furlan - 18 Gennaio 2012 - 0:00
The Code Is Red… Long Live The Code
Band: Napalm Death
Etichetta:
Genere:
Anno: 2005
Nazione:
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80

“The Code Is Red… Long Live The Code” è l’undicesimo studio album d’inediti composto dagli storici grinder inglesi Napalm Death. La band, fin da metà anni ottanta, ha letteralmente ridisegnato il concetto di musica estrema, fornendo infiniti spunti di riflessione ed ispirazioni a favore dell’altrettanto estremo movimento che si svilupperà parallelamente oltreoceano, in Florida in particolare.
Certo, “The Code Is Red… Long Live The Code” è una sola parte di quel mutevole stile che da anni caratterizza le produzioni del quartetto britannico. Si pensi a quanto furono importati e ‘traumatici’ gli esordi di carriera “Scum” e “From Enslavement to Obliteration”, accecanti lampi a ciel sereno per quanto riguarda la storia della musica più furiosa che si potesse ascoltare, per non dire vere apocalissi d’un mercato discografico che assorbiva con lentezza i traumi del cambiamento. Non a caso furono in pochi (e ancora oggi qualcuno non coglie le peculiarità di questi due album!) a comprenderne il profondo significato stilistico e l’impatto psicologico che ebbero sui ragazzi dediti alla musica dirompente.

Venne poi l’era di Jesse Pintado, compianto chitarrista che con il suo prezioso contributo artistico spinse l’aspetto compositivo verso un approccio più ‘controllato’, più a misura di brano grazie alle slanciate attitudini death metal, sempre presenti a livello di ispirazione compositiva. “Harmony Corruption”, “Utopia Banished”, “Diatribes” rappresentarono, ancor più di altri dischi che hanno goduto del contributo del nuovo arrivato, una sorta di nuova era compositiva, anch’essa avanti anni luce dal grindcore ormai inarrestabile che partoriva tantissime produzioni underground, molte delle quali, ancora oggi, sconosciute. E sebbene lo stile si discostava significativamente da ciò che li aveva resi unici agli esordi, questi album, quelli della nuova formazione, ancora una volta, furono un punto di riferimento importante. Canalizzarono l’estremo del grindcore nel death metal, stile che aveva un grande interesse a livello commerciale (si pensi al movimento floridiano) e che quindi veicolò lo stesso grind a livello di mainstream. Un ciclo che si concluse, dopo altri album, con la pubblicazione del 2002 intitolata “Order of the Leech”. Poi Jesse Pintado non ce la fece più, debilitato nel fisico dalla debolezza di un vizio che lo porterà, nell’agosto del 2006, alla morte, proprio nell’anno di pubblicazione del secondo studio album dei suoi amori di gioventù, i californiani Terrorizer.

Ed arriviamo ai giorni d’oggi. Formazione a quattro, storica ormai, data la stabilità nel tempo ovvero Shane Embury al basso, Mitch Harris alla chitarra, ‘Barney’ Greenway al microfono e Danny Herrera alla batteria. Prende così il via una ‘terza nuova era’, passateci questa definizione per puro ‘ordine’ discografico-produttivo, ovvero questo ciclo di tre dischi che arriva fino ad oggi: l’album di cui stiamo parlando, “The Code Is Red… Long Live The Code”, “Smear Campaign” del 2006 e “Time Waits for No Slave”, uscito nel 2009. Forse mai nell’esistenza della band sono stati composti dischi così coerenti, compatti, pure sperimentali per certi accorgimenti, sopratutto a livello di suono che (forse?) Century Media Records consiglia ai quattro di Birmingham…
Ma quello che è ancor più importante è che “The Code Is Red… Long Live The Code” apre un nuovo ciclo interpretativo del grindcore di stampo Napalm Death. Un ciclo fatto di luci e ombre che rivelano e ombreggiano i dubbi. Di che dubbi parliamo? Beh, chi ha seguito da sempre questa band ha di certo idealizzato almeno due concetti: il primo è che il grindcore, o in generale la ‘vera’ musica estrema nata dalla strada: death, thrash, black che sia, è tutto meno che ‘music business’, il secondo è che ben pochi gruppi possono permettersi di suonare così arrogantemente ed aver tanto di quel seguito da finir sotto l’ala protettiva di una major come Century Media Records.
“The Code Is Red… Long Live The Code” è un buon disco. Sparato all’inverosimile in molti tratti, l’album presenta ancora una volta un ‘Barney’ in ottima forma, un immortale Mitch Harris, sia per gli squittanti scream, sia a livello di riffing e un sempre attitudinale Shane Embury alle quattro corde. Danny Herrera viaggia veloce, probabilmente senza particolar impegno nella dinamica (chi l’ha visto dal vivo sa cosa intendiamo…), ma raccoglie bene tutte le idee ritmiche del duo Harris/Embury. Il resto è pressapoco più che ordinario, fermo restando l’ottimo e gutturale growl di Barney.
In quanto alla musica, non manca il groove, non manca la cattiveria, non manca nulla a quello che un disco dei Napalm Death ‘moderni’ dovrebbe avere.

Non c’è altro da dire. Aspettate però, davvero non manca qualcosa? A voler esser pignoli e sinceri, mmm… forse non possiamo esserne certi. Non spetta a noi giudicare, ma forse per loro questo è ormai solo un lavoro (o secondo lavoro), come per altri fare l’operaio in fabbrica, il panettiere o fare l’insegnante (potrebbe forse essere altrimenti coi tempi che corrono?). Una cosa è però certa. Quell’umido buio da cantina che da tempo caratterizzava il loro modo di comporre, da qui poi, non ci sarà più. Il velo che sfuma i contorni sempre meno spigolosi di quello che un tempo era il vero grindcore è stato steso dall’evoluzione del grindcore stesso, una sorta di suicidio inesorabile. Un suicidio dalle cui ceneri è sorta un’efferata fenice, elegante ed affascinata dalle architetture di brani compositivamente più ricercati (debite proporzioni a parte), scanditi da uno studio tecnico che ne ha, di fatto, soffocato l’anima crust/punk primigenia (quella pura, storica e sincera). Questo ragionamento non vorrà mai essere un giudizio, anche perché, soggettività a parte, considerato l’attuale mercato dell’estremo, i Napalm Death di “The Code Is Red… Long Live The Code” ne escono alla grande, come faranno poi con i due dischi successivi, meno o più violenti che siano, decidetelo voi liberamente. Ma nella sostanza i Napalm Death meritano rispetto. Vivranno per sempre perché sono stati e sono i Napalm Death! Un concetto tanto semplice, quanto, riteniamo, veritiero. Forse qualunque cosa facciano, a meno di scivoloni o prese per i fondelli colossali, saranno rispettati. D’altronde la musica spacca, il nome pure al solo pronunciarlo. E questo forse ci basta all’occasione, anche se non ci fa vedere rosso come un tempo.

Nicola Furlan

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Tracce:
01. Silence Is Deafening 03:48     
02. Right You Are 00:53     
03. Diplomatic Immunity 01:45     
04. The Code Is Red… Long Live The Code 03:30     
05. Climate Controllers 03:07
06. Instruments Of Persuasion 02:59
07. The Great And The Good 04:11
08. Sold Short 02:47     
09. All Hail The Grey Dawn 04:14     
10. Vegetative State 03:09     
11. Pay For The Privilege Of Breathing! 01:47     
12. Pledge Yourself To You 03:15
13. Striding Purposefully Backwards 02:54       
14. Morale 04:44       
15. Our Pain Is Their Power 02:10     
           
Durata: 45 minuti ca.

Formazione:
Mark ‘Barney’ Greenway: Voce
Mitch Harris: Chitarra
Shane Embury: Basso
Danny Herrera: Batteria

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