Recensione: The Sound Of Perseverance

Di Matteo Bovio - 14 Giugno 2002 - 0:00
The Sound Of Perseverance
Band: Death
Etichetta:
Genere:
Anno: 1998
Nazione:
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100

“The Sound Of Perseverance” è un album che chiude un capitolo tra i più importanti nella storia del metal: con esso ha fine la vicenda dei Death. Un gruppo che ha avuto l’onore e l’onere di fare da guida ad un’intera scena, e che con la sua fenomenale evoluzione ha attraversato per obliquo tutto il parorama metal, senza curarsi nè dei generi nè dei trend. Pochi giorni fa la mente creatrice della band, Chuck Shuldiner, ci ha lasciato: tutto il mondo del metal ha partecipato al lutto, con pochissime ed ingiustificate eccezioni. Questo basti a testimoniare l’importanza che i lavori, ma anche le gesta e le parole di questo gruppo hanno avuto nei suoi 11 anni di attività (11 se escludiamo il periodo pre “Scream, Bloody, Gore”).

Considerare questo album un classico potrà sembrare ad alcuni paradossale, in quanto come già detto si tratta della loro ultima pubblicazione. Ma non lo è per me e per coloro che lo conoscono a fondo: in sè racchiude tutto quanto ha caratterizzato da sempre i Death, ma allo stesso modo riesce anche ad aggiungervi altrettanto. E’ un classico perchè la sua pubblicazione è stata un fatto così raro da poter a tutti gli effetti essere considerata un evento. Spesso ci si accorge in ritardo, per così dire, del vero valore di un’opera: essa diventa un punto di riferimento solo molti anni dopo, quanto ci si rende conto tramite i fatti della sua importanza. Io non voglio che a questo CD sia sottratto anche solo un briciolo del suo valore, e mi sento pienamente pronto ad affermare a soli 3 anni di distanza dalla sua pubblicazione che sarà un punto di riferimento che in molti in futuro utilizzeranno.

La ricercatezza in fase di scrittura è quantomai evidente in ogni singola parte del lavoro, tanto che alcune strutture sembrano essere tali a come sono più per necessità che per libero arbitrio del compositore: per dirla in un altro modo, ad emergere fin dal primo ascolto sono la naturalezza e la spontaneità. Le quali non sono assolutamente sinonimo di banalità o di già sentito: ne è la prova più evidente la immensa “Spirit Crusher”, basata su continui cambi di tempo e intrecci armonici dall’incredibile raffinatezza.

Il suono stesso ha subito un’evoluzione notevole rispetto al passato: il cantato di Chuck si è fatto decisamente più tagliente, la batteria ha un suono meno meccanico e le la distorsione delle chitarre, a discapito della potenza, è più orientata verso sonorità incisive. Nonostante la palese tecnicità del lavoro, non può non emergere la caratteristica più bella ed indiscutibile: la pregnanza di sentimento che si ritrova in ogni singolo brano. E’ questo ciò che contraddistingue questo lavoro in maniera più evidente da tutti gli altri. Proprio per la medesima ragione mi sento di dire che le partiture di batteria di Richard Christy sono le migliori di cui i Death abbiano mai usufruito: grande tecnica, ma non fredda e macchinosa come quella che per esempio ritroviamo in “Symbolic”. Il tutto, per dirla breve, suona decisamente più umano. Ovvio che questa è semplicemente una constatazione personale, onde evitare le ire dei fan del grande Gene.

Personalmente trovo le due song d’apertura (“Scavenger Of Human Sorrow” e “Bite The Pain”) le due migliori in assoluto, sia a livello esecutivo che emotivo. Interessantissima la cover che chiude il CD, cioè “Painkiller”, degli storici Judas Priest. Con essa i Death hanno voluto probabilmente rendere omaggio ad un gruppo che li ha profondamente influenzati, così come, aggiungo io, loro influenzeranno quelli a venire. C’è un pizzico di malinconia in me mentre scrivo queste parole: per quanto io non abbia vissuto la crescita dei Death di persona (eh sì, sono troppo giovane) mi è comunque evidente la passione che mettevano nei loro lavori, e assieme ad essa posso facilmente intendere l’importanza che la scena in generale gli ha sempre attribuito. Un’importanza che anche il più freddo e distaccato degli ascoltatori è tenuto ad ammettere sia perchè i fatti lo dimostrano sia perchè ogni singolo album ha sempre portato con sè evidenti innovazioni.

Per tanti versi più che una recensione ho scritto un insieme di considerazioni sui Death: ma “The Sound Of Perseverance” stesso, come già detto, racchiude in sè tutta la loro storia e anche di più. E’ un album necessariamente da avere, o almeno da conoscere, perchè come al solito i piccoli spariscono, mentre i grandi vivono in eterno. Sarà retorico, ma fin da quando Chuck ha scritto l’ultima nota di questo album, non ha fatto altro che scrivere a caratteri indelebili il suo nome in un pezzo di storia, la storia della nostra musica.
Matteo Bovio

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