Recensione: The Unquiet Sky

Di Valter Pesci - 2 Maggio 2015 - 11:48
The Unquiet Sky
Band: Arena
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2015
Nazione:
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74

2015. La progressive rock band inglese capitanata dal buon Clive Nolan e dal batterista fondatore degli storici Marillion, Mick Pointer, pubblica il suo ottavo studio album. Una lunga strada li ha portati fin qui, partendo dal primo lavoro nel 1995: per quest’importante ricorrenza hanno voluto fare le cose in grande. The Unquiet Sky, infatti, è un concept album basato sulla storia breve di M. R. James, ‘Casting the Runes’ (e influenzato sensibilmente anche dal film derivato da tale opera nel lontano 1957, “Night Of The Demon”).

È proprio la versione cinematografica che ha inspirato la pomposa e inquietante intro di “The Demon Strikes”, la quale ci stupisce ed esalta con un’orchestrazione sinfonica degna della miglior colonna sonora di un colossal catastrofico, veramente travolgente. Spicca un bell’assolo melodico, ma in linea con quel quid malvagio lontanamente percettibile e alimentato dal continuo tappeto sonoro affidato all’orchestrazione di Clive Nolan. S’inserisce, poi, la teatrale e inconfondibile voce di Paul Manzi, versatile e espressiva, calda e preparata. Tanta melodia, un pezzo quasi da musical (nei quali peraltro il leader della band si è ripetutamente cimentato in passato), per la capacità di trasportarci in altri mondi a seconda dell’immaginazione di ciascuno, molto coinvolgente.
L’inizio sembra dei migliori, vediamo come procede il nostro viaggio andando ad ascoltare la seconda incisione: “How Did It Come To This”. Arpeggio acustico accompagnato a dovere da un languido pianoforte, la voce del singer è ancora una volta caldissima, timbro molto gradevole e interpretazione piena di sentimento per quella che si rivela essere la prima ballad del cd. Un paio di soli a metà del pezzo, a dire il vero abbastanza scontati, danno luogo alla classica conformazione delle ballad sapore anni ’80. Song che scorre senza problemi.
The Bishop Of Lufford” torna a proporci le sonorità tipiche della band che avevamo in parte apprezzato nel corso dell’opening track. Finalmente, oltre alla grande e fondamentale componente evocativa della musica proposta dagli inglesi, si notano un paio di sprazzi prog, con qualche tempo dispari ad alternarsi ai soliti lineari 4/4. Il suono della tastiera di Clive Nolan a volte ricorda qualche nota composizione di Gobliniana memoria. La sezione solistica rimane però sempre un po’ nell’ombra, un po’ troppo anonima.
La quarta traccia, “Oblivious To The Night”, è un interludio di un paio di minuti. Rumore di pioggia, qualcuno pigia i tasti di una macchina da scrivere: si fa largo un malinconico tema di pianoforte. Subentra la voce di Manzi a rivelarci il testo dell’ipotetica lettera scritta a inizio canzone.
Decisamente più aggressivo è l’approccio al pezzo successivo, “No Change Encounter”. Altro brano interessante, ben suonato, ben cantato, con un tiro degno di nota e qualche tempo dispari a ricordarci che si tratta, in qualche modo, di progressive. Come da copione di ogni concept bene eseguito, il contesto immaginativo ed emotivo in cui siamo stati scagliati nel corso dei primi pezzi rimane presente e questo è un segno di maturità e del fatto che la band avesse le idee ben chiare a riguardo.

Ancora un inizio molto soft e atmosferico per “Markings On A Parchment”. Una voce satanica effettata e fatta pronunciare al contrario in sottofondo spunta a metà brano per conferire ancora più teatralità e fedeltà alla fonte. Un paio di frasi corali, che strizzano più di un occhio al gospel, mettono fine a quest’altro breve interludio.
Ormai l’abbiamo capito, il tono minaccioso del concept fa da padrone. Anche le prime battute della title-track lo ribadiscono, fino all’ingresso carismatico del nostro buon singer. La traccia scorre sciolta e piacevolmente tra il tranquillo arrangiamento strumentale e le onnipresenti orchestrazioni ariose a formare le fondamenta sonore. Anche le melodie della linea vocale sono immediate. La parte dedicata ai soli sottolineano ulteriormente l’attitudine più melodica e quasi contornale della 6-corde di Mitchell, mentre l’attacco vocale, con cambio di tonalità al termine della sezione solistica, è veramente riuscita e ci fa quasi sobbalzare dalla sedia per quanto ci coinvolge emotivamente. Bel pezzo.
What Happened Before”, introdotta solo da un piano sapiente e dalla solita voce del nostro Mr. Musical Manzi continua a tenerci seduti e incollati alle cuffie per “vedere come prosegue”. Un lungo solo di chitarra, come sempre molta armonia e tecnica quanto basta, precede un altro segmento strumentale moderatamente prog, prima del ritorno in primo piano della linea vocale.
Time Runs Out”, riporta quel tocco di energia che da un po’ mancava. Incipit di tastiere quasi power. Mood più heavy per tutta la durata del brano, con riff ben pensati e voce più tagliente, saltuariamente condita da effetti. L’immancabile solo stile Hammond si alterna alle ennesime scorribande melodiche di Mitchell. La sezione finale vede ancora la presenza massiva di tastiere power e della maestria interpretativa di Manzi.
Il decimo brano, “Returning The Curse”, mette in evidenza suoni ancora più moderni, grazie alle tastiere di Clive Nolan. Il ritmo di questa incisione è sempre sul moderato-andante ma, a differenza delle precedenti composizioni, questa lascia trasparire una sorta di guizzo speranzoso, contrastante con quel mistero angoscioso esibito fin qui. Tutte variazioni che, chiaramente e inevitabilmente, tengono conto dello svolgimento narrativo dell’opera cui si ispirano.
Unexpected Dawn” è la penultima song del platter, nonché la seconda vera e propria ballad. Il pezzo, molto orecchiabile e malinconico, scorre bene fino al finale. L’unica suite (seppur relativamente breve) del disco, invece, è proprio la final song “Traveler Beware”. I nostri sfoggiano, a tratti, un suono ancora più aggressivo del solito, mostrando la propria anima metal. Linea vocale sempre abbastanza catchy e facilmente ricordabile. Qualche breve stacco metrico ci riporta in un mood un pochino più prog, così come l’improvviso break melodico a tre quarti canzone. Orchestrazioni da “Phantom Of The Opera” fanno da tappeto per tutti i sette minuti registrati.

A conti fatti, possiamo tranquillamente sostenere di trovarci al cospetto di un bel disco, fresco, coinvolgente e con qualcosa da dire. Una menzione particolare va fatta anche alla stesura dei testi, sempre scritti molto bene e fedeli alla fonte originale. L’indole naturale a creare atmosfere accattivanti è un punto in più a favore della band ed è l’ingrediente principale, insieme alla grandissima capacità interpretativa ed espressiva della voce di Manzi, per la buona riuscita di un concept di questo calibro.
Last but not  least, un obbligo morale ci impone di spendere due parole a favore dell’incredibile artwork di copertina, forse una delle copertine più belle degli ultimi decenni: un cielo super minaccioso, dal misto color rosso lava e nero tenebra, incombe inesorabile su di un prato sterminato e incolto, sul quale siede un affranto uomo in abito elegante, pensieroso e probabilmente impaurito. Inutile sottolineare che anche l’accoppiata titolo-copertina è in piena sintonia con quanto sentito. Veramente un buon lavoro, buon XX anniversario, cari vecchi Arena!

 

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