Recensione: Toto XIV

Di Eric Nicodemo - 19 Marzo 2015 - 8:00
Toto XIV
Band: Toto
Etichetta:
Genere: AOR 
Anno: 2015
Nazione:
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80

Quando parliamo di eclettismo in musica non sempre questo termine assume connotazioni positive: l’artista eclettico diventa una figura ambigua, che, per nascondere la carenza d’idee ed ispirazione, non riuscendo a creare un proprio stile, unisce influenze delle più disparate. Con un enorme e tronfio sfoggio di cultura, il nostro saccente non fa altro che imbastire un sound fastidioso ed impersonale.

Un termine simile non può, dunque, rappresentare il vero spirito dei Toto, la cui attività pionieristica ha segnato la musica e li ha resi capaci di rinnovarsi, mantenendo sempre invariato il proprio talento e la propria passione. Che si parli dell’epicità melodica di album come “Hydra”, del lirismo di “Turn Back” o del soft rock struggente dell’incantevole “Toto IV”, i Nostri sono riusciti a creare fin dalle origini un sound dinamico, che si alimenta di suggestioni diverse, fatte convivere in sintonia nel corpo di un’unica, grande band.

E dopo innumerevoli avvicendamenti nella propria line-up, questo pezzo di storia del melodic rock (termine che va stretto ai Nostri) si riunisce sotto l’egida della Frontiers Records, per ridare lustro al monicker con il nuovo capitolo della saga ovvero il qui presente “Toto XIV”.Toto XIV” non vuole rappresentare un semplice rifacimento del passato ma la perpetuazione dell’anima dei fratelli Porcaro e soci, al di fuori dei vincoli temporali.

Detto questo, il significato di “Running Out Of Time” appare chiaro e non c’è migliore prologo per il nuovo full-lenght. Il motivo? Un titolo che esprime la fuga dagli schemi, oltre i limiti imposti dai generi e dalle mode imperanti: la chitarra di Lukather non è lo strumento di un musicista schiavo del passato ma interprete dal carattere “volubile”, che varia da un mood spigliato e brioso, al temperamento enfatico dei vibrati. Tastiere e sintetizzatori sono eguali protagonisti nel forgiare un registro vitale, che ha le sue luci nei tasti dinamici e radiosi. Come di consueto, il coro completa la visione d’insieme con il suo ascendere intenso e sentimentale. Di sicuro, un inizio intrigante per il combo della spada.

Altro tassello fondamentale è il suono riprodotto del piano, che si tinge in “Burn” di dramma e del rosso fuoco della passione. La veemenza del coro è vento caldo e assuefante, mentre i tonfi rituali del fiero tamburo ricadono come tizzoni ardenti nel braciere. “Burn” è alimentata da un’atmosfera epica e struggente tale da farci sentire l’intenso calore del rogo che divora cuore e mente. Sonorità così solenni ed imponenti potrebbero sollevare alcuni dubbi sulla coerenza di questa canzone con le restanti tracce. Preoccupazioni prive di fondamento, non solo per la qualità del brano ma anche per il solo fatto che questa è una band che racchiude le impressioni di un vasto e variegato background musicale (cosa già dimostrata al tempo dal leggendario debut album, che fondeva pulsioni hard’n’roll con le tentazioni pop e blues).

Secondo la tradizione dei Toto, “Burn” è l’ennesimo portavoce di un linguaggio emotivo, lo stesso che è protagonista in “Holy War”, dove i Toto dichiarano guerra alla violenza e diventano soldati addestrati a portare gioia e spensieratezza. Le armi per vincere questo conflitto sono le stesse di sempre, con la stessa forza immutata negli anni: l’energia vitale del Lukather solista, l’eleganza festosa delle keyboards e i colori raggianti del coro.

E se la musica dei Toto fosse paragonata ad un quadro, le tonalità dominanti sarebbero calde, tenui o accese che siano. In questo dipinto, la velata melodia di “21st Century Blues” (inutile dirlo) assume le tipiche tinte del rock blues, seduzioni materializzate dal ritmo calmo e fluente. L’andamento vellutato si apre e dal coro sfocia la tanto attesa, disarmante melodia, che sembra abbracciare ed unire ogni confine del mondo.  Tutto questo fa capire quanto sia importante per i Toto l’equilibrio tra ispirazione e saveur melodico, che fotografa una band capace di concedersi all’orecchiabile senza scadere nell’intrattenimento pacchiano tanto richiesto dai mass media.

C’è sempre una forza trascinante che anima le canzoni del platter, sia che si tratti di un lento che di una veloce corsa. E’ la forza di non darsi per vinti, a cui la band ha dovuto fare appello nei momenti bui, un credo che vola alto nelle lacrime di “Orphan”, spezzando le catene della solitudine.  L’entusiasmo del refrain infrange qualunque barriera e sembra fuggire libero dalle incomprensioni. Irresistibile il finale, con la sei corde che, incalzante, sembra esortarci a non mollare. Mai.

Unknown Soldier (for Jeffrey)” è densa di tristezza, percorsa dai fremiti argentini dell’acustica e scossa dalla sei corde. In bilico tra la storia malinconica e il racconto tragico, il brano riprende la fierezza della precedente “Burn”.

In contrasto con il clima drammatico di “Unknown Soldier”, si pone la delicata “The Little Things”, che ci restituisce l’intimità di una fotografia, l’affetto di una carezza, piccole cose che hanno un grande significato. Calore e immagini ci vengono alla mente quando si scorre le pagine della vita, seguendo le piccole note e i sussurri della voce. Gradevole e primaverile, non c’è dubbio.

Come testimonia “The Little Things”, tastiere, synts e percussioni rubano più di una volta la scena alla chitarra solista. Allo stesso modo, “Chinatown” da poche concessioni a Lukather, al fine di riproporre un’atmosfera suadente, ricordando vecchi classici e rimandi esterni (Asia). Il refrain virile del pre-chorus ha, tuttavia, un sentore queenish. Un dettaglio arrembante, posto come contraltare al refrain soffuso della canzone.

Ovattata e ben più malinconica “All The Tears That Shine”, illuminata dalla luce diafana e calda dei backing vocals. In realtà, non si avverte una sensazione di tristezza ma sembra che dopo le proprie sofferenze, le lacrime si asciughino e uno spiraglio di luce penetri attraverso le nubi.

Maggior mistero ammanta “Fortune”, quasi dovessimo muoverci con prudenza e astuzia, attenti al destino e artefici della nostra fortuna. L’alterco tra coro e main vox, il suono mutevole e ricco di contributi a più mani, conferisce a “Fortune” la natura stessa del destino ovvero imprevedibile e sfuggente.

Ma abbiamo una certezza: i Toto non possono dare commiato senza una canzone che tocchi le corde delle sensazioni. “Great Expectations” non delude le attese, perché il coro è quello che cercavamo: il brivido di un ritornello impossibile da dimenticare. La jam session è perfetta trasposizione in musica delle nostre aspirazioni, un miscuglio di synts trepidanti, aperture epiche e di un playguitar roccioso ed impulsivo. “Great Expectations” rappresenta al meglio “Toto XIV”, non solo per la qualità degli arrangiamenti, ma anche perché simbolo della band, portata avanti per anni senza abbandonare la speranza nel futuro. Un episodio che dimostra originalità e voglia di continuare, consci e orgogliosi delle proprie origini, senza mai esserne completamente succubi.

Ecco perché “Toto XIV” non è il solito come back ma il rinnovarsi di una storia, quella dei Toto, che non conosce confini. Non ci troviamo di fronte, dunque, al sequel di “Toto IV” (come si vociferava), né, per nostra fortuna, davanti alla replica di vecchi successi: questa è l’ennesima testimonianza di artisti capaci di proporre un racconto sempre coinvolgente, pur rimanendo fedele a se stesso. Una storia che continua ad affascinare e ad unire generazioni diverse, senza mostrare cedimenti o i segni del tempo. Un po’ come quella spada in copertina, così antica, ma ancora così splendente.

 

Eric Nicodemo

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