Recensione: Tourniquets, Hacksaws And Graves

Di Vittorio Sabelli - 26 Aprile 2014 - 20:05
Tourniquets, Hacksaws And Graves
Band: Autopsy
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2014
Nazione:
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78

Ci sono band che non hanno bisogno di presentazioni, che hanno ancora linfa vitale e idee non convenzionali che negli anni continuano a sorprendere. Gli Autopsy rientrano in questa categoria, con l’eccezione che, a differenza di molti ‘colleghi’ di genere, non sono mai scesi a compromessi, con niente e nessuno, tantomeno sotto il profilo musicale.

Se appena dieci mesi fa il disco “The Headless Ritual” ci regalava una band ancora affezionata alla old-school, con qualche inserto moderno, il nuovo “Tourniquets, Hacksaws And Graves“ lascia quanto meno il dubbio o la curiosità di capire la nuova direzione intrapresa da Reifert e soci. Il periodo creativo dopo la reunion porta a riscoprire gli Autopsy sotto diversi punti di vista, che, seppur come base hanno la matrice che li ha resi alla storia del death metal, riescono a non lasciarci quantomeno indifferenti e diffidenti.

La partenza con l’accoppiata “Savagery/King Of Flesh Ripped” è senz’altro il loro marchio di fabbrica: ritmi serrati, cambi di tempo e un Reifert che modula la sua voce in un range vario e sempre più esteso. Cosa ancor più evidente nella title-track “Tourniquets, Hacksaws And Graves”, sulla quale si cimenta in una sorta di duetto con sé stesso, tra screaming e growl, dettando i tempi e la direzione da intraprendere. Il tutto sotto l’attacco delle chitarre acide, armonizzate e ben distinte, che viaggiano insieme, si dividono, si rincontrano e si battono, lasciando la batteria del leader sempre più libera di gestire l’andamento globale della musica.

“The Howling Dead” è caotica nella parte inziale, prima di far esplodere la rabbia di Reifert, che declama più che cantare su un riff ‘storto’ quanto il timing, ad libitum e in stile free, che non dà punti di riferimento. Finalmente un riff rimette tutti sulla strada del ‘conosciuto’, con un inserto Rock’N’Roll e un finale in slow-time.

“After the Cutting” e “Forever Hungry” sono entrambe tirate dritte a mille, con la prima che si apre a una sorta di giro Rock’N’Blues, con tanto di soli ‘in stile’, mentre la seconda vede aperture in ¾ e chitarre che lavorano su scale  blues, cosa non proprio attesa dai nuovi Autopsy. Anche “Teeth Of The Shadow Horde” è in stile old-school, senza pietà, arricchita e colorata dal solito Reifert con i vari ‘elementi’ della sua batteria. Un inevitabile slow-time è nell’aria sin dalle prime battute, con un riff non troppo interessante, su cui si lancia Coralles in un solo che ‘stempera’ la furia, prima di ripartire verso il finale, con la chitarra ancora sulle righe, questa volta con un solo vero e proprio, con tanto di lick blues al suo interno.

Il breve intermezzo con effetti e urla chitarristiche di “All Shall Bleed” lascia il passo a “Deep Crimson Dreaming”, che inizia con un cacofonico incrocio di feedback e noise. Reifert blatera qualcosa d’incomprensibile, finchè un arpeggio alla Toni Iommi mette in campo la melodia espressa dal duo Cutler/Coralles, che subito si rilancia con un riff ‘dritto’ sempre in ambito Black Sabbath. Le basse frequenze dei tom e del timpano di Reifert iniziano una sezione quasi tribale, che si trasforma in hard-rock prima e di nuovo in death verso il finale.

“Parasitic Eye” è ostica sin dall’inizio, con un arpeggio paranoico e melodico, preludio di un brano all’insegna dell’incertezza, che si dirada solo nel finale con le due chitarre armonizzate che chiudono in maniera sorprendente.  “Burial” è il doom in musica, in cui Reifert vomita letteralmente nel microfono, prima di una linea melodica della chitarra che si staglia su un arpeggio delicato ma abbastanza tetro. Il brano scivola in questa direzione andando a toccare momenti ‘minimal’, come preludio dell’esplosione finale, sempre ben organizzata dal quartetto, con tanto di solo di chitarra ai limite dell’atonalità.     

Le chitarre melodiche sono il fulcro della conclusiva e autocelebrativa “Autopsy”, insieme a un controtempo di Reifert sui piatti, ma solo fin quando un up-tempo prende piede, fino a lasciar posto a un improvviso e breve intermezzo lento. La sezione doom ‘alla’ Autopsy che Reifert si diverte a colorare con piatti e qualche breve solo, è il preludio del finale, sul quale un urlo congeda la band da questa nuova fatica discografica, la loro settima su full-length, la terza dalla reunion del 2009.

Ancora una volta Reifert e soci dimostrano di riuscire a non essere monotoni e ripetitivi, ma capaci di sorprenderci con ottime soluzioni, che spesso vanno a toccare ambiti non proprio vicini al death, ma probabilmente è questa la mossa vincente che continua a farci apprezzare la band in ogni sua sfumatura, visto che dai grezzi esordi si è saputa evolvere, fino a raggiungere un assemblaggio ai limiti della simbiosi tra i musicisti.

Hat-Off ancora una volta per una vera e propria leggenda del death metal e dell’underground. Finchè c’è gente come Reifert c’è speranza per un futuro ‘migliore’.    

Autopsy is death metal and death metal is Autopsy!

Vittorio “versus” Sabelli

 

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