Recensione: White Horse Hill

Di Stefano Usardi - 29 Maggio 2018 - 10:00
White Horse Hill
Etichetta:
Genere: Doom 
Anno: 2018
Nazione:
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87

Esattamente vent’anni dopo il loro ultimo LP, i britannici Solstice (da non confondere con gli omonimi deathster floridiani) danno alle stampe, dopo EP, split, cofanetti e brani contenuti in varie compilation, il loro ultimo parto: “White Horse Hill”. Visti da sempre come una delle leggende del doom più epico, i nostri isolani non hanno mai fatto mistero della loro preferenza per un approccio decisamente meditato alla materia musicale – e la frequenza delle loro uscite discografiche dimostra ampiamente che per loro la qualità sarà sempre preferita alla quantità – evitando inutili riempitivi per presentare ai propri fedeli discepoli lavori concentrati, densi e carichi di passione. Con “White Horse Hill” i nostri decidono di alzare l’asticella e ci presentano un’opera sontuosa, solenne ed elegante, in cui l’epic nella sua accezione più incontaminata e solenne (quello, per intenderci, che prende le distanze dalle inutili sboronerie da ultras per incedere con la pacata consapevolezza che l’epica vera è sofferta, riflessiva e assai più complessa del classico “la mia spada è più grande della tua!”) diventa la materia primaria su cui lavorare, mentre le inflessioni doom fanno capolino solo quando servono, impreziosendo l’arazzo dei nostri e screziando i passaggi più compassati con le loro malinconiche ombreggiature. Inutile dire che con una proposta del genere la voce evocativa di Paul Kearns calza a pennello, riuscendo a trasmettere a seconda delle necessità fierezza, coraggiosa rassegnazione, solennità e carica battagliera, incastonandosi meravigliosamente nel carosello di profumi antichi ed emozioni senza tempo creato dai suoi colleghi. L’alchimia tra perizia tecnica e trasporto emotivo è, in quest’album, qualcosa di veramente superlativo e contribuisce a dar vita ad un lavoro notevole, in cui ogni traccia possiede una personalità propria e ogni passaggio, ogni riff ed ogni cambio di atmosfera è studiato con attenzione e pazienza per catapultare l’ascoltatore in un mondo diverso, remoto, nobile.

Paradossalmente proprio una delle tracce più brevi, l’intro strumentale “III”, risulta la più prolissa, dato che a mio avviso la sua durata poteva tranquillamente essere dimezzata, ma ogni rimostranza si scioglie come neve al sole con l’arrivo della magniloquente “To Sol a Thane”, la cui avanzata maestosa è sufficiente a far capire che se non siamo di fronte a un robusto concorrente per il titolo di album dell’anno è stata una grande annata. Ogni secondo trasuda onore e fierezza senza mai scadere nel caricaturale, con passaggi strumentali di rara poesia sorretti da una base ritmica rocciosa e insistita, il tutto permeato da un’atmosfera che mi ha ricordato, in alcuni punti, i Bathory più epici. L’arpeggio solitario e disilluso della breve “Beheld, a Man of Straw”, sorretto dal sibilo della pioggia, compie egregiamente il suo dovere e apre all’approccio più delicato di Paul, sofferto e minimalista, che in un attimo scompare per cedere spazio alla title track. “White Horse Hill” parte con cipiglio quasi western, salvo poi impennare il tasso di epicità tout–court con melodie declamatorie e chitarre raglianti, permettendosi di giocherellare con una base ritmica meno monolitica e improvvise incursioni melodiche dal lirismo imponente. Ottimo anche l’assolo, carico di feeling, che apre l’ultima parte della canzone ed il suo climax trionfale, sfumato giusto in tempo per il finale più sommesso. “For All Days, and For None” parte lenta, ossianica, rassegnata: un canto di dolore serpeggiante, screziato da una tensione eroica mai sopita ma sempre sottopelle in cui torna un certo profumo western quasi morriconiano, per un’elegia appena accennata intorno al fuoco. Anche qui le emozioni create sono da pelle d’oca, e anche se è pur vero che un minutino o due in meno avrebbero potuto rendere il brano più concentrato, è altrettanto insindacabile che il mio è solo un tentativo di trovare il proverbiale pelo nell’uovo. Il finale con le campane rintoccanti sotto lo scroscio della pioggia apre la lunga “Under Waves Lie Our Dead”, caratterizzata da una partenza drammatica e scandita, stavolta sì, protervamente doom. Il pezzo prende corpo con una certa rapidità pur mantenendosi estremamente cadenzato, dando la possibilità alla voce di Paul di tornare a destreggiarsi su lidi più stentorei e magniloquenti grazie ai tappeti di riff tessuti dalle chitarre, che esplodono nella breve e trionfale incursione che apre l’altrettanto breve sezione strumentale. Un attimo di silenzio, un arpeggio dimesso e un’illusione di calma scompaginano le carte, ingannando l’ascoltatore prima di rituffarsi nella solennità esasperante del quintetto, scandita da una sezione ritmica inarrestabile e instancabile. Un pezzo enorme. Chiude questo gioiello “Gallow Fen”, breve commiato in cui la solennità si vela di minaccia in un primo momento, per poi rompere gli argini in una cascata di pathos (forse un po’ eccessiva, ma comunque in linea con il climax prodotto dall’album) dall’intenso retrogusto di seventies.

Qualora non si fosse capito, questo album è un must per qualsiasi ascoltatore abbia l’ardire di definirsi amante dell’epic metal, ma la sua qualità sopraffina è tale che anche i cultori della musica passionale e carica di sentimento troveranno sicuramente pane per i loro denti, a patto di avere una certa dose di pazienza per sprofondare pian piano nelle spire di questo gioiellino e assorbirne la commovente bellezza.
Magnifico.

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