Recensione: Who do we think we are

Di Filippo Benedetto - 31 Gennaio 2004 - 0:00
Who do we think we are
Band: Deep Purple
Etichetta:
Genere:
Anno: 1973
Nazione:
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80

Dopo aver sfornato ben due dischi a dir poco storici per lo sviluppo dell’hard rock mondiale (“In Rock” del 1970 e “Machine Head” del 1972) nonché dopo un fortunato tour immortalato nel bellissimo live album “Made in Japan” (sempre del 1972) i Deep Purple provarono a cavalcare l’onda del successo con il loro settimo album da studio, “Who do we think we are”, uscito nel 1973 e registrato in parte in Italia (a Roma) e in parte in Germania. Questo disco non venne accolto molto bene dalla critica e chiuse l’era “Mark II” del combo (quella storica composta da Ian Gillan, Ritchie Blackmore, Roger Glover, Jon Lord e Ian Paice). Tuttavia, ad un’ascolto attento, questo lavoro non sembra affatto sottotono rispetto alle precedenti prove risultando degno di particolare nota. Certo, non è paragonabile ai capolavori precedenti ma contiene alcune songs che non tradiscono le aspettative di ogni buon amante dell’hard rock e dei Deep Purple in particolare. Ma passiamo all’analisi del disco e cominciamo, innanzitutto, dalla descrizione della copertina. Quest’ultima, rispetto ai precedenti artwork, risulta essere più “essenziale”.Infatti in essa non si distinguono nitidamente  i membri della band, i cui volti sembrano “svolazzare” dentro bolle di sapone.
Si comincia con “Woman from Tokyo” ed è un classico riffone hard rock, eseguito con la solita classe da Blackmore, a “inondare” l’orecchio dell’ascoltatore. Il pezzo ha un ottimo “groove” dove la sezione ritmica basso/batteria è determinante soprattutto nel compattare la forza d’urto del tema principale del pezzo che risulta poi essere anche il refrain principale. Nel mezzo del brano la band trova anche lo spunto per una godibile divagazione dal leggero sapore “psichedelico”, ma è una breve parentesi che viene chiusa con l’irrompere maestoso del refrain principale. In più da notare è il lavoro al pianoforte di Jon Lord che aggiunge classe al pezzo con la consueta puntualità e senza posizionarsi eccessivamente avanti rispetto agli altri strumenti. In seguito questa song è diventata un classico del combo capitanato da Blackmore. 
La seguente “Mary Long” ha un incedere quasi blues, il tutto però riletto in chiave purpleiana. Gillan si dimostra pienamente in forma, come del resto non aveva mancato di darcene prova nella precedente song. Anche qui varie atmosfere si incontrano intrecciandosi l’una all’altra, sfociando in una divagazione quasi “orientaleggiante”, merito delle vocals di un Gillan ispiratissimo. Bisogna aggiungere che questa canzone, per il testo ivi contenuto, può essere considerata una sorta di brano satirico, sbeffeggiante la censura allora imperante in Inghilterra (vengono presi, velatamente, in giro personaggi come Mary Whitehouse e Lord Longman). “Super Trouper” è un piacevole brano nel quale è possibile notare appieno l’abilità di Blackmore nel creare un riffing efficace ed in grado di trascinare il resto degli strumenti in una sorta di “vortice” musicale senza stancare affatto l’ascoltatore.
La quarta traccia, “Smooth Dancer”, è una gradevolissima cavalcata di riffs che riprende per certi versi la carica adrenalinica di brani come “Highway Star”. Ian Paice picchia forte dietro le pelli e Ritchie Blackmore delizia l’ascoltatore con vigorosi riffs.
Il blues in salsa hard rock rispunta nella seguente “Rat Bat Blue”. Il pezzo subisce, lungo tutto il suo svolgimento, numerosi cambi di tempo e trova nella parte centrale un soprendente sbocco in un assolo di Lord davvero fulminante.
L’amore per il blues, se nella song precedente era dichiarato ma non esplicitato in termini platealmente riconoscibili, nella seguente “Place in Line” si materializza in tutta la sua sostanza grazie ad un giro di chitarra tra i più classici. Grande l’assolo di Ritchie che eleva di tono il brano e bravo anche Jon Lord nell’eseguire il successivo assolo per hammond rimanendo perfettamente in linea con il tema generale del pezzo. “Our Lady”, track di chiusura, è un mid tempo nel quale in primo piano risulta l’organo di Lord. Il pezzo sembra rileggere nel tema principale alcune intuizioni “beatlesiane”, il tutto però secondo canoni e attitudine purpleiani.  Forse la quasi “prolissa” esecuzione del tema fondamentale del brano impedisce alla canzone di decollare, nonostante la sua esecuzione sia tutt’altro che sottotono rispetto al resto delle songs del platter.
In sostanza questo “Who do we think we are” è un disco controverso sia per il momento particolare in cui è stato scritto, sia per la direzione musicale in esso intrapresa. Questa “doppia faccia” ne fa comunque un lavoro da avere, per conoscere e apprezzare ulteriormente l’importanza che i Deep Purple hanno avuto lungo ben tre decenni di storia dell’hard rock.   

Tracklist:

1.Woman from Tokyo (Blackmore/Gillan/Glover/Lord/Paice) 5:48
2.Mary Long (Blackmore/Gillan/Glover/Lord/Paice) 4:23
3.Super trouper (Blackmore/Gillan/Glover/Lord/Paice) 2:54
4.Smooth dancer (Blackmore/Gillan/Glover/Lord/Paice) 4:08
5.Rat bat blue (Blackmore/Gillan/Glover/Lord/Paice) 5:23
6.Place in line (Blackmore/Gillan/Glover/Lord/Paice) 6:29
7.Our lady (Blackmore/Gillan/Glover/Lord/Paice) 5:12

Bonus Tracks
8.Woman from Tokyo (Blackmore/Gillan/Glover/Lord/Paice) 6:37
  (’99 remix).
9.Woman from Tokyo (alternate bridge) 1:24
10.Painted horse (Blackmore/Gillan/Glover/Lord/Paice) 5:19
   (Studio outtake. Previously released on compilations).
11.Our lady (Blackmore/Gillan/Glover/Lord/Paice) 6:05
   (’99 remix).
12.Rat bat blue 0:57
   (Excerpts from th writing sessions).
13.Rat bat blue (Blackmore/Gillan/Glover/Lord/Paice) 5:49
   (’99 remix).
14.First day jam 11:31 (Instrumental).

 

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