Recensione: Wolfskult

Di Francesco Gabaglio - 15 Giugno 2013 - 5:00
Wolfskult
Band: Varg
Etichetta:
Genere:
Anno: 2011
Nazione:
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72

«Sehnsucht è la ‘malattia del bramare doloroso’, ma non è una malattia. Sehnsucht è passione e dolore, è una ricerca che provoca sofferenza ma non debolezza. L’inesauribile volontà di raggiungere qualcosa che sta lontano viene sospinta da una forza interiore che nessuna rabbia, nessuna ambizione e nessun altro sentimento uguagliano mai. Una meta che per una persona significa tutto non verrà mai raggiunta se non si è disposti a dare tutto. La Sehnsucht fa avvampare un fuoco che spinge un uomo più in là di quanto gli permettano le sue capacità, più in là di quanto le sue gambe possano portarlo. E questo fuoco avvamperà finché la passione coverà nel suo cuore. Sarà una forza motrice per grandi azioni a venire e porterà alla libertà quelli che sono disposti a tutto».

Questo è ciò che i Varg ci dicono nel booklet, al termine di un ascolto che definire intenso è troppo poco. Reduce dall’appena sufficiente Blutaar, il combo tedesco si rimbocca le maniche e sforna un album dalle caratteristiche sonore solo leggermente diverse, ma complessivamente meglio riuscito. Seguendo le tracce di Blutaar e spingendosi ancora oltre, l’impasto sonoro diventa ancora più limpido ed estremamente compresso; tali caratteristiche mirano a conquistare un’ampia audience, soprattutto tra i numerosi giovani che in questi anni si stanno approcciando al pagan metal. Nonostante ciò, etichettare Wolfskult come un semplice album commerciale, da ascoltare di tanto in tanto a volumi assordanti, sarebbe un grave errore: dietro i vari specchietti per le allodole troviamo delle idee non banali e realizzate con passione.

Il disco, pur non essendo propriamente un concept album, ha un filo tematico-concettuale che lega alcune tracce. Escludendo la breve introduzione orchestrale, opera di Réné Berthiaume e quindi prevedibilmente ben riuscita e suggestiva, i testi coprono fondamentalmente due aree tematiche: una pagana e un’altra definibile lirica. La prima traccia, Wir sind die Wölfe (‘noi siamo i lupi’), sfugge in realtà a questa bipartizione: dal punto di vista musicale risulta orecchiabile e vi risuona quel qualcosa che ci aveva fatto innamorare dei Varg ai tempi di Wolfszeit; d’altro canto però il testo è di una banalità sconcertante e costituisce una sorta di autoglorificazione della band, di pessimo gusto e che poco o nulla ha a che fare col resto.
L’album procede poi secondo le due categorie sopra menzionate. Nell’area più schiettamente pagana si trova innanzitutto Schwertzeit (‘il tempo delle spade’), brano significativo più che altro dal punto di vista sonoro in virtù del flebile cantato melodico e un po’ incerto che contrasta efficacemente con lo scream/growl di Freki e il sound massiccio di asce e pelli. Altro brano in questa categoria, dal testo meno significante, è Nagelfar. Musicalmente violentissimo, è caratterizzato dalla fitta tempesta di batteria e dal ritornello lento e di rara malignità che non può non ricordare i Belphegor più recenti e sadici.
Il filo concettuale comincia ad intravedersi con Wolfskult (‘il culto del lupo’). Il brano prende le mosse da un’altra specie di autoglorificazione (sic), per poi sfociare in qualcosa di più consistente: il ‘culto del lupo’ in questione consisterebbe in una lotta contro i non-valori dell’era contemporanea e in una conseguente ricerca di valori antichi e più umanamente genuini. Emblematica (anche se non certo di eccelsa qualità) è la seguente strofa, che acquisirà ulteriore importanza in seguito:

 

Wolfskult heisst kämpfen
Wolfskult heisst siegen
mit Herzblut und Wut
jeden Schatten bekriegen
sich selbst immer treu
auf all diesen Pfaden
mit Siegsucht im Willen
die Schlachten zu schlagen

Wolfskult significa lottare
Wolfskult significa vincere
con sangue e furia
combattere ogni ombra
rimanere fedeli a sé stessi
su tutti questi sentieri
con sete di vittoria nella volontà
combattere le battaglie

 

Glorreiche Tage (‘giorni gloriosi’) prosegue su questa linea tematica di attivismo combattivo: è una lode e una promessa di fedeltà allo spirito della giovinezza. A livello sonoro è invece un brano un po’ anomalo: dopo un’introduzione in linea col resto dell’album, il ritmo accelera improvvisamente e la batteria suona in levare, tendendo al punk-rock. Tuttavia, a differenza di quanto accadrà nell’album successivo, il quintetto riesce ad imprimervi il suo stile non ricorrendo a cantati melodici o corali e non mettendo una nota fuori posto.
L’impeto vitalistico prosegue in Phönix, vero e proprio brano pagano sulla scorta di quelli già citati ma con un quid emotivo malinconico che comincia in un certo senso ad intrecciare paganesimo e lirismo, finora distinti. Costituisce una lode al sole, il cui tramontare e risorgere viene paragonato all’incendiarsi e al risorgere di una fenice. Il sound è caratterizzato di nuovo da una doppia cassa sempre molto fitta ma anche da chitarre a tratti malinconiche, che danno il meglio di sé nel ritornello.
Blutdienst III (‘ufficio di sangue’) costituisce il terzo e ultimo capitolo di una storia iniziata in Wolfszeit e continuata in Blutaar. Un uomo, compiuto un omicidio per questioni d’onore, si rivolge a sé stesso ponderando ragioni e conseguenze delle sue azioni. Finisce per essere perseguitato in sogno dal figlio dell’uomo assassinato; infine, oppresso dai sensi di colpa e dalla paura, si uccide. La riflessione sulla vita innescata dalla precaria situazione dell’uomo acquisisce rilevanza anche in virtù dell’azzeccato arpeggio di chitarra acustica che lo accompagna.
Ma ora, signore e signori, è giunto il momento di Sehnsucht. Il che significa giungere al picco dell’album e dell’intera carriera dei Varg. Di fronte a un brano del genere non ci si può che sentire schiacciati e insieme elevati da una dose tale di emotività espressa nel modo più sincero e brutale possibile. In questi dieci minuti i tedeschi mettono tutto ciò di cui sono capaci e tutto ciò in cui credono, non solo come musicisti ma anche come uomini. Musicalmente c’è di tutto: doppia cassa e blast beat, vibrato e assoli, chitarra acustica e harsh vocals. C’è la voglia di vivere la vita come una battaglia, la voglia di correrle incontro a rotta di collo, di scegliere il proprio personalissimo modo di affrontarla, di vivere fino in fondo tutte le situazioni facendosi investire dalla loro portata emotiva. Vivere con la Sehnsucht, appunto:

 

Sehnsucht heisst leiden
Sehnsucht heisst lieben
Sehnsucht heisst kämpfen
Sehnsucht heisst siegen

Sehnsucht heisst die Ferne im Herz
Sehnsucht ist Schmerz
So quälender Schmerz…

Sehnsucht significa soffrire
Sehnsucht significa amare
Sehnsucht significa lottare
Sehnsucht significa vincere

Sehnsucht è la lontananza nel cuore
Sehnsucht è dolore
dolore straziante…

 

Concettualmente e strutturalmente simile a quella già citata della title-track, questa strofa realizza in tal modo il contatto tra Wolfskult e Sehnsucht, cioè tra paganesimo e lirismo: il Wolfskult è, in fondo, la Sehnsucht: chi vi aderisce vive la propria vita con slancio e pathos, con un entusiasmo e una sofferenza che si esprimono in un rapporto egoistico con la civiltà e in un rapporto pagano nei confronti del Creato. Il messaggio del disco si rivela così in questa traccia, sotto la luce della quale esso va interamente letto.
L’album si chiude in modo meno entusiasmante ma comunque dignitoso con Glutsturm (‘tempesta di braci’), traccia che chiude il discorso e ne apre un altro, dichiarando un nuovo inizio e proiettando l’impeto vitalistico verso il futuro e verso l’eternità stessa.

Die Flammen werden Zeuge sein
Jeder soll es sehen
Ewig brennt das Licht…

 

Accantonando la becera attitudine beona, banalmente festaiola e superficialmente anticristiana che caratterizza molte delle release pagan di oggi, i Varg creano quindi un album in cui tentano di approcciare un concetto romantico e di farlo proprio unendolo a tematiche mitologico/pagane. Di fatto quest’unione non si realizza veramente che in pochi brani, ma il tentativo è senz’altro lodevole e i risultati non sono disprezzabili. Non nascondiamoci dietro un dito: in Wolfskult i difetti ci sono e sono evidenti. Tuttavia le qualità del disco sono altrettanto evidenti: al di là dell’aspetto furbescamente commerciale, delle rovinose cadute di stile e degli eccessi sonori che tradiscono una certa megalomania del quintetto, non si può non ammettere che in questo album ci siano tanto cuore e tante ottime idee realizzate in maniera efficace, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto compositivo. Wolfskult è un album oscuro, solido e compatto, ma al contempo anche catchy e persino emozionante. È Wolfszeit coi lustrini e il trucco; è una donna troppo imbellettata, ma non una meretrice. Se riuscite a dimenticare fard e ombretto potreste innamorarvene seriamente.

Francesco “Gabba” Gabaglio

 

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