Recensione: Worship the Kraken

Di Daniele D'Adamo - 3 Agosto 2016 - 18:23
Worship the Kraken
Band: Grond
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2016
Nazione:
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Kraken. Mostro marino leggendario dalle dimensioni abnormi, generalmente rappresentato come un gigantesco cefalopode, con tentacoli abbastanza grandi e lunghi da avvolgere un’intera nave.

Questo, il mito, ripreso dai russi Grond per il loro secondo album in carriera, “Worship the Kraken”, per l’appunto. Benché siano moscoviti, i Nostri, e quindi continentali, l’amore per gli oceani e le loro storie epiche è palpabile, ovunque nei testi delle song. Tanto che essi stessi hanno coniato un nome apposito per la loro musica: sea worshipping death metal.

Senza sforzarsi nemmeno troppo, tuttavia, i Grond producono death metal, peraltro con notevoli influenze old school. Nulla d’innovativo, quindi. Anzi. Il cliché è piuttosto abusato. Sia per la parte sonora, sia per quella scritta. Quest’ultima, difatti, centrata sulla letteratura lovecraftiana, pascolo per le band sin dai tempi dell’insuperabile strumentale “The Call of Ktulu” (Metallica, “Ride The Lightning, 1984). La storia del Kraken, in effetti, risale a tempi addirittura medioevali, ma per similitudine visiva e di azione è immediatamente accostabile senza fatica a Chtulu, Yog-Sothoth e agli altri Grandi Antichi.

Dal punto di vista strettamente musicale, i Grond annoiano abbastanza in fretta. Malgrado la volontà e le intenzioni, e ovviamente le tematiche, come già accennato più si tratta, alla fine, di old school death metal.

Più o meno. Poco interessante, non particolarmente ispirato ma, soprattutto, lontano, lontanissimo dal potere visionario che deve possedere certo tipo di sound. A parte l’opener-track, ‘Invocation’, nel resto di “Worship the Kraken” c’è poco o niente che faccia venire in mente il rumore della risacca delle onde, della salsedine, del libeccio. Act come per esempio gli Atlantis Chronicles, i The Great Old Ones, i Devil Sold His Soul, tanto per citarne tre a caso, sono piazzati su piani sinceramente diversi, rispetto a quello su cui si muovono i tre deathster di Mosca. Molto, molto più in alto, qualitativamente parlando. Qualità del songwriting, specificamente.

I Grond si muovono, questo lo fanno bene poiché comunque sanno dar vita a un sound adulto e corposo, entro confini ben definiti. Tratteggiati da decenni da altri. I riff sono sempre quelli, i soli pure, il drumming sfora come da copione la sfera dei blast-beats, prediligendo tuttavia ritmi più lenti sino ad arrivare al doom con la conclusiva, tediosa, ‘Typhoon is Coming’. E proprio il batterista, Daemorph, è anche il cantante. Il suo growling non è male, in quanto a morbosa profondità. Ma è monocorde e poco modulato per cui anch’esso, alla lunga ma nemmeno troppo, diventa stucchevole.

Un mezzo flop, insomma, poiché le premesse per un buon lavoro, data soprattutto l’invenzione del sea worshipping death metal, c’erano tutte.

Peccato.

Daniele D’Adamo

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