Recensione: Songs No One Will Hear

Quando si tratta di rilasciare dischi in studio come ampiamente dimostrato dalla sua ormai lunga carriera, il poliedrico polistrumentista olandese e mastermind degli Ayreon rimane una vera e propria macchina da guerra. Il nostro amato Arjen Anthony Lucassen infatti, dopo aver rilasciato l’ultimo capitolo del suo progetto Star One nel 2022, il disco con il suo nuovo gruppo Supersonic Revolution nel 2023 ed aver scritto il primo disco solista della vocalist degli Epica Simone Simons nel 2024, torna con un nuovo progetto che stavolta porta unicamente il suo nome.
Ufficialmente quindi, Songs No One Will Hear potrebbe essere considerato il suo terzo disco solista, dopo Pools Of Sorrow Waves Of Joy del 1991, ma soprattutto, dopo l’acclamato Lost In The New Real del 2013. A conti fatti anche in questo caso il buon Arjen si fa aiutare da una squadra di musicisti e vocalist collaudati, come Marcela Bovio (che ormai collabora con Mr. L dai tempi di The Human Equation), Floor Jansen (Nightwish), la sorella Irene, Robert Soeterboek (anche lui un fido di Lucassen dai tempi del primo album degli Star One), Michael Mills come voce narrante, o più precisamente come “speaker” di una trasmissione radiofonica (ormai una pedina fondamentale nello scacchiere di quasi ogni disco del musicista olandese), Peter Daltry e naturalmente il braccio destro Joost van den Broek ai sintetizzatori e l’organo Hammond.
Lucassen torna come a suo solito con un concept album dal titolo azzeccatissimo… difatti quelle “canzoni che non sentiremo mai”, sono proprio quelle del disco in questione che nel mondo di fantasia di Arjen non vedranno mai luce in quanto, come annunciato nel pezzo narrato di apertura del platter, nello spazio di cinque mesi un asteroide colpirà la terra distruggendola. Ma il vero focus del disco non è tanto l’asteroide, quanto gli esseri umani, i loro comportamenti e le loro reazioni una volta ricevuta la notizia, ma soprattutto, come essi spenderanno il poco tempo che rimane. Una analisi quasi sociologica del comportamento umano, dove Lucassen tra una riga è l’altra per i più attenti, non è restio nell’esprimere i suoi pensieri verso la nostra specie, con riferimenti al complottismo, all’isterismo di massa, al negazionismo.
Per i cinefili, una trama che per certi versi rimanda al film Deep Impact del 1998 ma che dall’altro ricorda molti tratti della celebre serie tv Breaking Bad (in quel caso ci stava la questione del cosa fare della propria vita una volta scoperto di essere afflitti da una malattia terminale), ma non possiamo dimenticarci, aggiungerei soprattutto, del più recente Don’t Look Up, film di Netflix con DiCaprio e Jennifer Lawrence uscito nel periodo pandemia, dove si affrontava in un film apocalittico proprio il fenomeno del complottismo e del negazionismo. Onestamente ci stupirebbe non poco dato le clamorose similitudini nella trama, se Lucassen da grande appassionato di cinema qual è, non abbia tratto ispirazione per il suo concept almeno dall’ultimo film citato.
Il disco a livello di sonorità è diverso da Lost In The New Real. Se quest’ultimo aveva un’impronta quasi ”beatlesiana” sotto una veste sci-fi, questo è un album vario, che spazia dal progressive rock più classico ad un sound più moderno e distopico in pieno stile Ayreon, fino ad arrivare a delle chitarre più robuste, ma spesso con assoli in pieno stile Pink Floyd, eterei e sognanti. Non mancano gli inserti di flauto traverso che danno quel tocco folk molto tipico della musica del maestro Lucassen, oltre alle immancabili parti di violino per dare enfasi alle sezioni più drammatiche. Ovviamente c’è anche il fattore vocalist, dato che in questo disco non è il solo Lucassen a cantare, ma appaiono in esso numerosi altri cantanti, come citato poco fa.
Da notare che questo platter è disponibile in due versioni: la prima senza la narrazione di Mills che chiude ogni brano e funge da apripista per il seguente, ponendo le basi per la prosecuzione della storia, mentre la seconda è quella completa, che include anche i momenti narrati, assolutamente consigliata per chi conosce bene l’inglese. Già perché la prestazione di Mills è davvero un punto di forza dell’album. Il vocalist dei Toehider infatti, con il suo fare irriverente, il suo mood scherzoso e la sua forte pronuncia australiana, diventa un attore di primo piano che ci fa fare due risate nei momenti più leggeri e ci incupisce in quelli più drammatici. Già, perché benché questo disco parli di apocalisse imminente, non esita nel donarci momenti frizzanti, spensierati e a tratti quasi demenziali, accanto ad attimi più intimi e riflessivi.
Si parte alla grande! Dopo l’intro narrata di Mills, The Clock Ticks Down, con i suoi sette minuti di durata, ci mostra il meglio di quanto prodotto in questo disco, almeno tra la serie di brani più eterei e sognanti. Dopo l’annuncio della fine imminente del pianeta terra, le voci si spargono, tra sgomento, rassegnazione e persino un senso di rifiuto per quanto sta per avvenire. C’è chi si rifugia in casa chiudendo le tende, chi decide di chiamare una persona che non sentiva da parecchi anni, chi trova la forza e il coraggio di compiere finalmente un qualcosa che aveva sempre voluto fare nella propria vita. Questo brano rappresenta pienamente in musica i pensieri riflessivi e razionali delle persone nei momenti più chill, ma anche il caos e la disperazione di quella fetta di popolazione che apprende i fatti con sgomento e terrore.
Il brano inizia con un arpeggio di chitarra e la voce calda di Arjen che in questa prima parte si alterna con Floor Jansen. Lo stile, i suoni, la produzione, è di quanto più tipicamente Lucassen si possa sentire, per degli aspetti che sono diventati ormai dei marchi di fabbrica della musica del polistrumentista olandese. Nel primo verso cantato da Floor quel “as the clock ticks down…” pronunciato dalla vocalist è sfumato , mentre nella seconda strofa “as the clock ticks” è interrotto bruscamente da una sezione dal sound più industrial, futuristico e con echi distopici. Entrano le chitarre heavy e granitiche, per una sezione che ci riporta dritti verso i lidi sonori di un disco come 01011001 (in particolare un pezzo come Age Of Shadows). Da notare gli apprezzabili cori da parte di Irene Jansen che danno quel senso di drammaticità al pezzo, mentre una serie di assoli di gran gusto ci riempiono le orecchie prima del “reprise” affidato a Floor.
Michael Mills a fine pezzo ci introduce al concept del brano successivo, ossia Goddamn Conspiracy, un pezzo che suona molto in stile Deep Purple ma con quelle sezioni di flauto traverso che gli danno quel tocco alla Jethro Tull. Un brano frizzante, up-tempo che cambia le dinamiche sonore poste dal pezzo precedente. Il tema è piuttosto ovvio; cospirazionisti, negazionisti, tutti in fila per denunciare i “poteri forti” e mettere in dubbio le fondamenta scientifiche che hanno portato alla scoperta dell’asteroide che distruggerà la terra – “the earth’s round, a man on the moon… yeah right! I ain’t no fool!”(l’atteggiamento è proprio questo)- non mancano i riferimenti a temi più attuali della nostra storia più recente come il cambiamento climatico, le scie chimiche, il 5G (mancava solo il riferimento ai vaccini per Il COVID!), tutti temi presi di mira da questa categoria di persone.
C’è da notare come Il buon Arjen ha sempre dichiarato nelle sue interviste di non voler mai essere un musicista che impone o predica le sue idee, ma nonostante ciò, è abbastanza naturale che molti dei suoi pensieri traspaiano in maniera non troppo velata nei suoi testi e questo ne è un esempio.
“no ragged clothes , no silver spoon, you’re all the same when extinction looms!” con queste parole pronunciate da Mills che I fan più devolti di Arjen sicuramente riconosceranno (si tratta di una frase di Everybody Dies dal disco The Source degli Ayreon del 2017), passiamo alla delicata e triste The Universe Had Other Plans, con dei bellissimi e grandiosi cori dal vibe spaziale da parte di Marcela Bovio e una parte cantata da Lucassen in maniera sofferta, riflessiva ma allo stesso molto lucida. Si ritrovano qui le sonorità più grandiose degli Ayreon e degli Star One, ma anche quel vibe più floydiano in pieno stile Universal Migrator Part 1: The Dream Sequencer. Un tripudio di disperazione e consapevolezza, per un pezzo dove il protagonista riflette sui sogni e le ambizioni che aveva per la propria vita andati in frantumi perché l’universo, a quanto pare, aveva piani molto diversi.
Alla fine del brano Mills scherza sul fatto che prima che l’algoritmo dei vari sistemi informatici e dei social possa riuscire a trovare un’efficace sistema di monetizzazione e guadagno da questa grande sventura saremo tutti comunque polvere e si chiede inoltre cosa fareste se sapeste di avere solo cinque mesi di vita rimanenti? La risposta è data dal successivo pezzo, la frizzante Shaggathon, il brano più corto del disco con i suoi tre minuti di durata. Un inno al divertimento nonostante la situazione drammatica. “Why not 69? Let’s try it doggystyle!” con tanto di abbaio di un cane, è quanto di più irriverente e scherzoso Lucassen abbia mai messo su carta, per un testo che da lui non ci saremmo aspettati, ma che riassume benissimo il messaggio del pezzo, far festa nonostante tutto!
Ma questo disco è come un’altalena, dove dopo un momento più allegro, ecco che l’album ci fa rituffare nei meandri della tragicità del concept. We’ll Never Know ci riporta quindi con i piedi per terra, in un pezzo che vede Lucassen e Floor duettare, per un brano che cresce di intensità mano mano che procede nella sua durata, fino a culminare in un acuto della stessa Floor da brividi, da cui sfocia un gran bell’assolo di chitarra. Non riuscitissimo nel complesso ma il finale salva il tutto.
Ma tenetevi forte perché sta per tornare l’amatissimo Dr.Slumber! il protagonista di Dr.Slumber’s Eternity Home da Lost In The New Real del 2013 sta organizzando (come annunciato dall’incredula voce di Mills via radio), un bus dove chi vuole può salire a bordo verso il punto dove l’asteroide è previsto che impatterà la terra. Ed è dunque il momento di salpare in una delle avventure sonore meglio riuscite del disco, per un pezzo spensierato, frizzante, e con un chorus elettrico che vi si stamperà in testa sin dal prima ascolto – “So get the tickets for the blue bus, we will take you to the show! come down, Dr. Slumber is around, the blue bus is in town!” – e il luogo dove ci porterà questo bus è proprio “Sanctuary Island”, anche qui un riferimento a Lost In The Now Real, per una serie di “easter eggs” che siamo sicuri che verranno apprezzati dai fan di Lucassen più devoti . Deliziosa la linea di chitarra che accompagna il ritornello e sono davvero d’impatto, ancora una volta, i cori di Irene Jansen (anche questa una voce che ci fa sentire sempre a casa nel nostro amato pianeta Ayreon), così come il ritornello ripreso alla fine da Floor.
Mills via radio ci racconta del divertimento del popolo che si è radunato a “Sanctuary Island”, puntualizzando il fatto che oggi come oggi ancora non siamo storia, nel senso che c’è ancora del tempo da vivere e dunque sfruttiamolo al meglio! Questa consapevolezza appare nella delicata Not Today, quasi una triste rassegnazione a ciò sta avvenendo, con una spettrale immagine di una terra desolata e vuota che continua ad orbitare intorno al sole dopo l’impatto dell’asteroide, solo senza più il calore umano né quello delle miliardi di specie che lo hanno animato e si sono evolute su di esso durante il corso di miliardi di anni. Not Today è un breve pezzo da tre minuti completamente cantato da Lucassen, il tutto in maniera assolutamente minimale, accompagnato da una chitarra acustica e poco altro primo di introdurci al gran finale, l’epopea da quattordici minuti rilasciata come primo singolo del disco.
Dalla stazione di Mills le trasmissioni iniziano a cadere e mentre a “Sanctuary Island” la gente continua a far festa, nelle città il panico dilaga, la gente assalta i negozi, mentre regna il caos più totale. Our Final Song che vede praticamente tutte le voci di questo album racchiuse nel pezzo è un brano che offre tanto, dai momenti arpeggiati, ad un’esplosione galoppante in mezzo alla canzone dove il ritmo del pezzo diventa improvvisamente sostenuto prima di cambiare nuovamente con degli inserti di flauto. Poi un assolo di sintetizzatore, sezioni di violoncello, uno sprazzo di musica dal retrogusto più ambient… insomma c’è tutto quello che si può aspettare da un pezzo di quattordici minuti scritto da Lucassen! E poi (sempre in stile Lucassen), c’è la sorpresona sul finale, dove Peter Daltry (in mezzo ai suoni apocalittici che accompagnano la distruzione del nostro pianeta) intona – “mission complete, let the new phase begin”- Insomma un’apocalisse costruita a tavolino da qualcuno? forse una razza aliena? forse dai nostri stessi governi? I complottisti avevano dunque ragione? Il finale resta aperto, le interpretazioni sono molteplici e sono sicuro che ogni fan si farà la propria idea.
In conclusione Songs No One Will Hear è un disco elaborato, variegato e multi sfaccettato, dove l’essenza del trademark sound di Arjen Lucassen è davvero riconoscibile e distintivo, dai suoni alla produzione, fino ad arrivare allo stile narrativo del concept che con i suoi caratteri apocalittici, racchiude una storia che fa breccia soprattutto negli aspetti sociologici e psicologici dell’essere umano, ancora una volta, in pieno stile Lucassen che ha spesso messo gli esseri umani e le loro emozioni al centro di storie che all’apparenza avevano come punto focale altro (in questo caso il meteorite che distruggerà la terra). Un viaggio in pieno stile space rock, con tanta carne al fuoco tra violino, violoncello, flauto, parti dal sapore più folk, esplosioni di suono, assoli di chitarra, sezioni di organo Hammond e una serie di vocalist di gran livello ad affiancare Mr.L. Un disco che a livello compositivo non raggiunge gli apici di Lost In The New Real ma è anche vero che i due album sono abbastanza diversi a livello sonoro. Piacerà ai fan del polistrumentista olandese anche se, complessivamente, anche nel recente passato il nostro Arjen ha partorito album migliori.