Recensione: Longing for Triumph, Reeking of Tragedy

A solo un anno di distanza da “The Duality of Decapitation and Wisdom”, i Veilburner tornano con il loro ottavo album, intitolato “Longing for Triumph, Reeking of Tragedy“. Un intervallo di tempo limitato, che consente di continuare la narrazione, stavolta di personaggi che non affrontano una morte qualsiasi ma quella che li lega a un ciclo infinito di reincarnazioni e li condanna a ripetere gli stessi traumi e fallimenti di prima. Congelati nella forma dell’infinito (∞) e rappresentati numerologicamente dalla cifra otto (8).
Tant’è, che l’incipit marziale dell’opener-track “Longing for Triumph…” si lega alla perfezione con la parte finale di “…Reeking of Tragedy“, a formare quindi un cerchio che, per chi ascolta, può essere percorso senza fine. Il ciclo infinito più su menzionato, insomma.
Come da tradizione di casa Veilburner, il death proposto è assolutamente non-lineare, pregno di così tante ramificazioni che a perdervi basta un secondo. Una specie di ottovolante sul quale si sale, si scende, ci si ribalta, e così via. Dando la sensazione, di primo acchito, di un approccio del tutto casuale alla questione. Nel senso che sembra, e si sottolinea sembra, che il dipanarsi della brani abbia una componente aleatoria. Al contrario, dopo molti passaggi, l’LP rivela una selva di particolari che definiscono, senza ombra di dubbio, uno studio preliminare a tavolino ben preciso.
Tutto è studiato quindi alla perfezione, in “Longing for Triumph, Reeking of Tragedy“. Non deve ingannare in primis la prestazione di Chrisom Infernium, del tutto desueta rispetto allo standard del death metal. Egli, difatti, percorre linee vocali arzigogolate, che si appoggiano al prodotto della strumentazione senza trafiggerle. Così facendo, non si crea quel legame forte fra i dettami della foggia artistica suddetta che definiscono la voce e la musica. Poco growling, ma una sorta di urlo sconsiderato che, qua e là, storce un po’ i timpani a causa di una dissonanza che, a parere di chi scrive, si rileva essere uno dei caratteri più distintivi del sound dei Nostri.
Sound che a sua volta si presenta come un caleidoscopio, i cui colori abbracciano le sfumature del grigio, svelando una maniera di comporre con la libertà di chi può muoversi senza vincoli alcuni. Individuo che altri non è che il mastermind del duo statunitense, e cioè Mephisto Deleterio, che si sobbarca il peso di manovrare tutta la strumentazione. Compresa ovviamente una drum-machine che, però, fa rimpiangere un pochino l’uomo per via di pattern troppo leggeri rispetto al resto della strumentazione stessa.
Ecco che allora saltano fuori elementi fra i più disparati. Disarmonie dal gusto acido, lisergico, che inducono nella mente uno stato allucinatorio il quale mostra un cielo cupo, piovoso, sotto al quale si può osservare una terra fangosa, fradicia. E, inoltre, una selva di gallerie orrorifiche che simboleggiano la natura genuinamente underground del disco. In tali anfratti, vengono concepite, nascono e crescono le varie song, sino a raggiungere la fisionomia finale.
Un insieme difficile da comprendere dato che, praticamene, ciascuna canzone è un mondo a sé, apparentemente slegato dalle altre compagne di avventura. E, come se non bastasse, queste si possono interpretare come micro-LP. La complessa struttura di ogni traccia è certamente ostica da digerire, soprattutto per i neofiti, con un songwriting vario e articolato. Nel gruppo c’è un po’ di tutto. Melodia in “Pestilent Niche” e, seppure in maniera meno incisiva, “Ouroboreal Whorl“. Furia devastatrice in “That Which Crypts Howls Grandeur” e “Matter o’ the Most Awful of Martyrs“, con qualche botta di blast-beats.
Poi la ridetta “Longing for Triumph, Reeking of Tragedy“, anche sostenuta da un drumming furibondo, che si può considerare un esempio dello stile tratteggiato dalla velenosa coppia per via di un incedere assai intricato. E infine “Rigor & Wraith“, dal sapore forte, atmosferico.
In “The Duality of Decapitation and Wisdom“, in sostanza, c’è così tanta carne al fuoco che si rischia l’indigestione, se non si è ben calati nelle follie del metal estremo. Peraltro, a proposito, i Veilburner si accostano al death metal ma l’aderenza a tale classificazione non è così scontata. Il che può essere un fattore negativo per chi è abituato a focalizzarsi su delle definizioni ben… definite. Al contrario, chi ama la libertà compositiva, non potrà che gioirne.
Daniele “dani66” D’Adamo


