Live Report: Halestorm + Bloodywood @ Alcatraz, Milano – 11/11/2025

L’Alcatraz di Milano torna ad accendersi in un freddo martedì di novembre per ospitare una delle tappe più attese del tour di “Everest”, il nuovo capitolo discografico degli Halestorm. Una serata dal sapore internazionale, aperta dagli indiani Bloodywood, freschi di un’ascesa rapidissima che sta attirando l’attenzione della scena nu metal globale grazie alla loro miscela unica di folk, rap e percussioni tradizionali.
Si parte con un quarto d’ora di ritardo, ma l’attesa non basta a riempire un Alcatraz ancora relativamente vuoto: la configurazione standard lascia ampi spazi liberi e anche le chiacchiere con il personale del tour agency confermano l’impressione di una serata lontana dai numeri delle grandi occasioni. Atmosfera particolare, quasi sospesa, che però non impedirà alle due band di tentare (con successo) di trasformare questo martedì qualunque in qualcosa di più intenso.
Bloodywood
A rompere il ghiaccio ci pensano i Bloodywood, formazione di New Delhi diventata in pochi anni un piccolo caso mediatico grazie alla loro formula di folk nu rap metal che mescola percussioni tradizionali, groove moderni e un dualismo vocale ormai riconoscibilissimo. Sul palco dell’Alcatraz si presentano in sei: Raoul Kerr alle parti rappate, Jayant Bhadula alla voce principale, Sarthak Pahwa al dhol – percussione tipica indiana e vero marchio di fabbrica del gruppo – più chitarra, basso e batteria a completare un impianto sonoro che guarda esplicitamente ai Sepultura dell’era “Roots”, pur traslando il tutto in un immaginario più contemporaneo e radicato nell’India urbana.
L’alternanza tra le due voci, così come tra i due idiomi – inglese e hindi – crea subito un certo dinamismo, e i breakdown distribuiti generosamente lungo la scaletta riescono con facilità a smuovere un pubblico inizialmente freddo. I Bloodywood tengono il palco con sicurezza e slancio, anche se non mancano alcuni cliché di genere che, alla lunga, smorzano un po’ l’effetto sorpresa.
Dopo un breve discorso introduttivo dai toni idealistici, il secondo brano in scaletta accentua la componente elettronica, forse fin troppo: gli innesti digitali, sommati a un flauto suonato dal chitarrista Karan Katyjar, fanno sorgere qualche dubbio sulla quantità di basi preregistrate utilizzate. Il parallelo con gli Eluveitie, apparsi sullo stesso palco qualche mese fa, nasce spontaneo: entrambi fanno uso del flauto, ma per finalità e contesti sonori diametralmente opposti, quasi a ricordare come il “folk metal” possa declinarsi in mondi molto distanti.
Nonostante l’energia non manchi, una certa artificiosità nei suoni accompagna l’intero set, e il fatto che il percussionista sparisca a tratti dal palco sembra confermare che il dhol fatichi a integrarsi con un impianto così modernista e spinto su una produzione da studio. L’impressione generale è che la band cerchi costantemente l’hook facile, il ritornello o il breakdown capaci di far saltare tutti, anche a costo di sacrificare un po’ di spontaneità.
Il momento più atteso arriva con “Bekhauf”, brano noto anche per la versione in studio con il featuring delle Babymetal. “Fear is nothing but a choice”, annuncia Raoul prima dell’attacco, e la sala risponde con entusiasmo. A seguire, una “Nu Delhi” dai tratti quasi bollywoodiani conferma una scaletta costruita in modo estremamente codificato, compresi i dialoghi tra i due vocalist che sembrano seguire un copione rodato.
Meno convincente, invece, la scelta di avere un fotografo costantemente on stage, presenza che alimenta la sensazione di un prodotto volutamente confezionato per il mercato globale, più che l’espressione istintiva di una giovane scena emergente.
Il finale è affidato a “Halla Bol” e poi alla più aggressiva “Machi Bhasad (Expect a Riot)”, chiusa dall’immancabile “jump, jump, jump” rivolto al pubblico. E mentre la sala asseconda, almeno per dovere di cronaca, qualcuno tra i presenti non può fare a meno di pensare che forse siamo diventati troppo vecchi per certi rituali da pit.
Bloodywood setlist:
Gaddaar
Aaj
Dana Dan
Bekhauf
Nu Delhi
Halla Bol
Machi Bhasad (Expect a Riot)
Halestorm
Il telo bianco cala all’improvviso, come un sipario teatrale, e gli Halestorm appaiono davanti a un imponente muro di Marshall: una scenografia volutamente classica, quasi un manifesto di intenti per una band che torna sui palchi europei con “Everest”, uno dei migliori album hard rock dell’anno. L’attacco con “Fallen Star” è immediato, e Lzzy Hale apre la serata con quel suo caratteristico “raschio” vocale: non tanto un’incertezza quanto una firma personale, un tratto distintivo che sparirà in pochi minuti per lasciare spazio alla potenza piena della sua interpretazione.
Dopo un rapido saluto al pubblico, la band si lancia in “Mz.Hyde” e poi in “I Get Off”, quest’ultima interrotta da un imprevisto nel pit — probabilmente un malore — gestito con una professionalità quasi disarmante. Lzzy e compagni si fermano, controllano la situazione e ripartono esattamente da dove si erano fermati, come se nulla potesse incrinare la loro concentrazione.
Sul palco, al di là del magnetismo della frontwoman, è impossibile non notare l’alchimia della formazione: Arejay Hale è una macchina ritmica impeccabile, perfetto nel dosare potenza e spettacolo; Joe Hottinger scolpisce riff e assoli con una pulizia quasi vintage; Josh Smith, spesso defilato, è in realtà la colla sonora della band e si divide con naturalezza tra basso e tastiere. Gli Halestorm funzionano perché sono un corpo unico, e questa sera lo dimostrano in ogni brano.
L’introduzione al pianoforte di “Everest” è uno dei primi picchi emotivi della setlist, con ottimi cori a tre voci che amplificano il pathos della title-track. Subito dopo arriva una “I Gave You Everything” tiratissima: Lzzy la urla, la vive, la consuma, e Hottinger la dilata con un assolo lungo, caldo, quasi classico nell’impostazione. Il fonico fa un lavoro perfetto: ogni dettaglio arriva pulito, pieno, bilanciato.
La parte centrale dello show è una successione di momenti intensi: “Shiver”, più cupa, incalzante. “Darkness Always Wins”, resa in una versione viscerale, dove le chitarre ritmiche diventano un pugno nello stomaco. “How Will You Remember Me?”, suonata interamente al pianoforte, con un’interpretazione quasi sospesa. “I Am the Fire”, prova di forza collettiva in cui arrangiamento, scelta dei suoni e interplay tra i musicisti mostrano una band superiore alla media dell’hard rock attuale.
Il passaggio da “Familiar Taste of Poison” all’attacco di “Rain Your Blood on Me“ scorre naturale, come un unico flusso emotivo, mentre la sensazione — sempre più concreta — è quella di trovarsi davanti a un gruppo che, in un’altra epoca, avrebbe riempito gli stadi senza troppi problemi.
Il classico drum solo di Arejay arriva puntuale e infiamma gli spettatori, prima dell’esplosione di “Love Bites (So Do I)“ e della possessione scenica di Lzzy in “WATCH OUT!“. Da qui in avanti la prestazione della frontwoman diventa quasi trascendentale: “Like a Woman Can“ lascia letteralmente a bocca aperta, mentre “I Like It Heavy“, col suo tocco country-blues, evoca per un attimo lo spirito di Alannah Myles senza perdere la personalità della band.
Il finale, sorretto da “Here’s to Us“, suggella una serata che supera ogni aspettativa. Gli Halestorm sono una band matura, solida, con un songwriting forte e una presenza scenica imponente: la sensazione, mentre si lascia l’Alcatraz, è quella di aver assistito al concerto di un gruppo ormai pronto per il salto definitivo verso la nobiltà del rock mondiale.
La serata dell’Alcatraz si chiude con due volti opposti delle nuove generazioni rock e metal: da un lato l’approccio più costruito e spettacolare dei Bloodywood, capaci di energizzare la platea ma ancora prigionieri di un’eccessiva patinatura da prodotto globale; dall’altro gli Halestorm, perfettamente consapevoli della propria identità e forti di una genuinità che traspare in ogni interazione, in ogni nota, in ogni esitazione trasformata in slancio.
Se all’inizio la sala semivuota lasciava presagire una serata sottotono, è stata la band della Pennsylvania a ribaltare tutto: “Everest” portato in scena con questa intensità conferma che gli Halestorm non sono più “una promessa dell’hard rock”, ma una formazione già grande, forse pronta per un’evoluzione definitiva verso l’Olimpo delle rock band contemporanee.
Per chi era presente, resta la sensazione di aver assistito a qualcosa di più di un semplice concerto: una band nel pieno della maturità, un pubblico conquistato passo dopo passo e una performance che, in un martedì qualunque di novembre, ha saputo ricordarci perché il rock dal vivo è ancora — e sempre sarà — un’esperienza irrinunciabile.
Halestorm setlist:
Fallen Star
Mz. Hyde
I Get Off
Everest
I Gave You Everything
Shiver
Darkness Always Wins
How Will You Remember Me?
I Am the Fire
Familiar Taste of Poison
Rain Your Blood on Me
Drum Solo
Love Bites (So Do I)
WATCH OUT!
Freak Like Me
I Miss the Misery
Break In
Like a Woman Can
I Like It Heavy
Here’s to Us
Vittorio Cafiero