Dream Theater Last Songs: il terzo decennio (2005-2015)

Di Roberto Gelmi - 1 Dicembre 2025 - 12:00

Prosegue la nostra rilettura  della carriera dei Dream Theater, per celebrare i lor quarant’anni di attività. Nel secondo capitolo (che trovate qui) avevamo esplorato il secondo decennio, dai tempi di Falling Into Infinity all’uscita di Octavarium, disco della consacrazione progressive ma anche inizio della flessione creativa della band. Proponiamo ora il terzo capitolo incentrato sugli anni che vanno dal 2005 al 2015, periodo che include i due studio album per Roadrunner Records con Portnoy in line-up e la prima parte dell’era Mangini. Buona lettura!

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Dal 2005 in poi inizia l’accelerazione della fase calante, che riguarda anche gli ultimi due dischi in studio con Mike Portnoy. Dopo il concerto tripudio al Radio City Music Hall, contenuto nel dvd Score per i 20 anni della band (con tanto di orchestra e setlist celebrativa), le idee iniziano a scarseggiare, come è normale che sia dopo milioni di note suonate, anni di creatività e voglia di mettersi in gioco per far conoscere il proprio trademark.

Gli stessi DT si accorgono che il loro stile sta diventando maniera, così, nel tentativo di rendere più al passo dei tempi il loro sound e rinnovarlo in parte, tentano di percorrere una nuova strada dopo la firma per Roadrunner Records. Con questi intenti nasce un platter che è la perfetta sintesi di Train of thought e Octavarium, e sfoggia tanta potenza ma anche follia prog. Il tentativo di palingenesi tuttavia fallisce e la principale pecca di Systematic Chaos a ben vedere è quella che possiamo definire “theaterizzazione” del progressive metal, ossia l’eccessiva saturazione delle parti strumentali e la loro ridondanza.

In the presence of enemies” è l’epitome di questa involuzione. Parliamo di una suite divisa in due parti che vanno a incorniciare il nono album in studio dei Dream Theater. Petrucci si ispira al manhwa Priest, che narra la storia di un prete assoldato dalle forze del male per fare da giudice vendicatore, salvo poi pentirsi e redimersi, guadagnando la salvezza dell’anima. Se i DT hanno avuto e continuano ad avere anche una vena politica (“The great debate”, “Sacrificed sons”, “Outcry”) in questo caso prevale l’evasione fantastica e il risultato è tra luci e ombre. L’intro strumentale della prima parte, vicino ai Liquid Tension Experiment, strappa un sorriso e risulta godurioso, così come l’unisono sparato a mille nel finale; convince meno la seconda parte, che inizia sorniona e poi diventa un pezzo thrash metal.

Qualcosa si è incrinato nella capacità dei nostri di realizzare architetture sonore in equilibrio tra virtuosismo e maestria compositiva, inutile negarlo. Difficilmente Systematic Chaos rientra quindi nella top five dei loro migliori album, complici altri brani poco ficcanti come “Repentance”, “Prophets of war” e “Costant motion” (pur riproposto recentemente per il quarantennale). Il tentativo di svecchiare il proprio sound strizzando l’occhio a sonorità moderne non va a buon fine, un vero peccato perché le doti tecniche dei nostri non sono in discussione, conoscono il panorama metal del nuovo millennio e il loro inspirational corner trabocca di band interessanti. Un pezzo come “The Dark Eternal Night” avrebbe potuto essere un nuovo capolavoro e invece a tratti risulta pacchiano…

 

https://www.youtube.com/watch?v=76nd3q0edEA

Creatività Tecnica Testi Longevità
★★☆☆☆ ★★★★☆ ★★★☆☆ ★★☆☆☆

 

L’addio di Portnoy nel 2010 segna un prima e un dopo decisivo per capire il recente entusiasmo legato alla reunion con il batterista storico. Quella fatidica frattura nasce dopo l’uscita del decimo album, Black clouds and silver linings, che vede nella sua concisa scaletta due brani con testi proprio di Portnoy. Ci riferiamo all’ultimo movimento dell’introspettiva Twelve-step suite, “The shattered fortress”, e l’elegiaca “The best of times”, tributo al padre scomparso Howard Portnoy. Ma il vero mattatore resta Petrucci che firma pezzi come “A nightmare to remember” (unico brano dei DT con alcuni blast beat) e “The count of Tuscany”, entrambi nati da suoi ricordi personali, liberamente interpretati in chiave musicale. Se il primo brano va a rivangare un brutto incidente automobilistico vissuto negli anni Settanta, il brano di chiusura è riuscito a imporsi come un grande classico dei DT, oggi sempre gradito nei concerti italiani (e non solo). Ascoltando le oscure trame del conte di Toscana, tra tempi dispari, parti in palm mute e una sezione psichedelica vicina a quella di “Trial of tears”, viviamo un’avventura claustrofobica ed esaltante al contempo. Per qualche minuto la nostra vita sembra messa in pericolo, salvo poi raggiungere l’attesa salvezza nelle strofe finali, accompagnate dal solito assolo magistrale di sir John. Questo basta e avanza, poco importa che i testi siano al limite dell’intelligibile (i critici in tal senso possono leggere le pagine di Rich Wilson che riporta la spiegazione di Petrucci in merito alla sua angoscia nelle cantine storiche toscane).

Prima di passare all’era post-Portnoy, ricordiamo, tra i suoi ultimi apporti alla band, le sue seconde voci nella cover dei Queen contenuta nel bonus disk di Black clouds and silver linings e le parti di batteria della strumentale videoludica “Raw Dog”. Per i successivi 13 anni la sua carriera artistica sarebbe stato altro dal teatro del sogno.

Could this be the end?
Is this the way I die?
Sitting here alone
No one by my side
I don’t understand
I don’t feel that I deserve this
What did I do wrong?
I just don’t understand

https://www.youtube.com/watch?v=qQNwclvMRXE&t=1052s

 

Creatività Tecnica Testi Longevità
★★★☆☆ ★★★★☆ ★★☆☆☆ ★★★★☆

 

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Gli anni Dieci

Il periodo post-Portnoy fu inizialmente all’insegna dell’incertezza. Scelto Mike Mangini come sostituto – dopo la trovata commerciale delle audizioni con altri batteristi tecnicamente mostruosi, su tutti Marco Minnemann – l’undicesimo full length avrebbe potuto rivelarsi un flop. Va detto anzitutto che le parti di batteria furono predisposte da Petrucci e Mangini si limitò a suonarle conferendo il suo tocco in più, il suo apporto in questo disco resta dunque in secondo piano.

A dramatic turn of events, a fronte di simili aspettative nefaste, si rivela in realtà il miglior disco della nuova line up insieme all’ultimo (A view from the top of the world, uscito nel 2021). Tra i pezzi che spiccano ci sono “Outcry”, “Bridges in the sky” e la bellissima Breaking All Illusions. Quest’ultimo contiene parti strumentali degne dei migliori DT e un assolo di chitarra che conferma il livello e la qualità raggiunta da Petrucci nel corso dei decenni. I testi sono opera dello stesso Petrucci, affiancato da Myung, che torna alla scrittura dopo un lungo iato come songwriter. Le liriche, a tratti ermetiche, parlano di risveglio interiore, di liberazione dalle false convinzioni e di un percorso che porta a una nuova consapevolezza di sé, menzionando anche il karma nel verso finale. Vorremmo risentirla più spesso in sede live, nei suoi 12 minuti con Portnoy alla batteria…

NB a dire il vero, l’ultima canzone della tracklist è “Beneath the surface”, ballad interamente composta da Petrucci, pezzo più che sufficiente ma nulla più, con Rudess che si diverte con un sintetizzatore “subacqueo”. Per questo motivo abbiamo citato “Breaking All Illusions”, di ben altra caratura.

 

Emerald thoughts flow through my consciousness
Drawn to curses left behind
Test of will the threshold to one’s faith
Starts a fire in the mind

[…]

Embrace the days
Don’t turn away
Life’s true intent needs patience
Karma starts the signal

 

https://www.youtube.com/watch?v=iLyCCEIazMw

Creatività Tecnica Testi Longevità
★★★☆☆ ★★★★★ ★★★☆☆ ★★★☆☆

 

Dopo la discreta prova di ADTOE, per alcuni critici l’album omonimo del 2013 è uno dei punti più bassi della discografica dei DT, pur vantando l’opener “The enemy inside”, uno dei pezzi più veloci e tecnici con Mangini alla batteria, recentemente riproposto (a suo modo in sede live) anche da Portnoy. Troppi rimandi ai Rush, poca ispirazione, James LaBrie ormai irrecuperabile vocalmente… queste le principali critiche al disco. L’album, tra l’altro, avrebbe dovuto chiamarsi “Illumination theory”, questo però resta il titolo della suite conclusiva, della durata di 20 minuti (con incluso un easter egg strumentale suonato dalla coppia RudessPetrucci). Si compone di cinque parti i totale, la prima delle quali è intitolata “Paradoxe de la lumière noire”; i testi esistenzialisti affrontano i motivi per cui le persone compiono sacrifici estremi (amore, libertà, vendetta, potere, fede) e sottolineano la ricerca della verità che implica necessariamente l’attraversamento del dolore della vita. Il gruppo newyorchese tenta di riproporre i fasti di un tempo per dare un senso all’album intero, ma ci riesce solo in parte. Resta apprezzabile, tuttavia, la sezione orchestrale in stile Čajkovskij e l’ultimo movimento “Surrender, Trust & Passion”, con l’accostamento di ritmiche quasi djent a parti vocali ricche di pathos. Questo però non basta per gli standard d’eccezione cui hanno abituato in passato i Dream Theater, i quali questa volta non si sforzano nemmeno di scegliere un artwork un minimo accattivante. Si salva Mike Mangini, più tecnico di Portnoy e sempre sul pezzo, mentre LaBrie inizia a mostrare evidenti segni di cedimento vocale. Ma il quintetto statunitense è come l’araba fenice e di lì a qualche anno avrebbe stupito con un doppio concept album, più vicino al rock che al metal.

Mothers for their children
Husbands for their wives
Martyrs for the kingdom
Fighting for your life

A soldier for his country
A junkie for the high
Teachers for their students
Vengeance for a crime

Rebels for their freedom
A tyrant for the prize
Courage for salvation
Money, love, and fame

https://www.youtube.com/watch?v=I5mHENqZyos

Creatività Tecnica Testi Longevità
★★★★☆ ★★★★☆ ★★★☆☆ ★★☆☆☆

 

Al prossimo mese per il quarto capitolo conclusivo in cui si parlerà degli ultimi dischi dei DT e del ritorno di Portnoy!

つづく