Progressive

Dream Theater Last Songs: il secondo decennio (1995-2005)

Di Roberto Gelmi - 2 Novembre 2025 - 12:00
Dream Theater Last Songs: il secondo decennio (1995-2005)

Continuiamo a ripercorrere la carriera dei Dream Theater, per celebrare il loro quarantesimo anniversario. Nel primo capitolo (che trovate qui) avevamo esplorato i primi dieci anni, dalla nascita dei Majesty all’uscita dell’Ep A change of seasons. Proponiamo, dunque, il secondo capitolo incentrato sugli anni che vanno dal 1996 al 2005, periodo che vede l’apice della band (tornata su livelli d’eccellenza con Scenes From A Memory) e l’inizio della parabola discendente (con il manierismo di dischi quali Train of Thought e Octavarium). Buona lettura!

***

Dopo il periodo chiaroscurale di metà anni Novanta, la vera rinascita dalle ceneri avviene con l’uscita di Falling into infinity, nel settembre 1997. Album divisivo come pochi, più rock che metal a tratti, è anche l’ultimo non prodotto dalla band che dovette scendere a compromessi con il produttore Kevin Shirley. Al netto di questi problemi, resta l’istantanea migliore del periodo che vede duellare Petrucci con Sherinian e Portnoy vincere di nuovo il Best prog drummer award dopo essere passato alla TAMA. Il suo drumwork su questo album è qualcosa che stupisce ancora dopo decenni, incluse le parti del brano che andiamo brevemente a commentare. “Trial of tears” è una canzone con un suo indubbio fascino, merito della divisione in tre movimenti con cambi di dinamiche suggestivi e raffinati. I testi introspettivi e criptici di John Myung (di nuovo alle prese con un brano in chiusura d’album) donano ulteriore ricercatezza al pezzo che non stona mai in sede live, complice la sua parte psichedelica che ogni volta lascia in uno stato di grazia il pubblico.

Il brano ha qualcosa d’ipnotico e familiare al contempo, risulta longevo all’ascolto, sempre fresco e multisfaccettato svelando un lato inedito della band che si dimostra ormai matura e sicura di sé nel proporre canzoni articolate e dal minutaggio generoso.

Still awake
I continue to move along
Cultivating my own nonsense
Welcome to the wasteland
Where you’ll find ashes, nothing but ashes

https://www.youtube.com/watch?v=L3u7OaTIFNk

Creatività Tecnica Testi Longevità
★★★★☆ ★★★★☆ ★★★★☆ ★★★★☆

 

Questo potevano essere i DT se avessero continuato sulla strada di una maggiore commercialità, mantenendo la line-up stabile e affidandosi a produttori esterni. Succede, invece, l’opposto e gli ultimi anni Novanta sono un altro momento di grande fermento e rilancio per i nostri, l’epilogo dorato del loro decennio creativo.

Metropolis pt II – Scenes From A Memory è stato il disco della consacrazione, una prova di forza senza eguali, i Dream Theater dovevano battere il colpo e dimostrare di essere ancora vivi e con qualcosa d’ambizioso da dire ai fan. L’innesto del talentuoso Jordan Rudess alle tastiere, un grande concept con trama noir, The Dance Eternity come migliore strumentale mai ideata dai DT, il ritorno al metal unito al prog. nell’incredibile sinergia theateriana che fu…

Con queste premesse, “Finally Free” è la killer track giusta per chiudere un album che rasenta la perfezione. È come se l’intero disco fosse condensato nei dodici minuti della sua durata. Si passa dall’avvio spensierato a un finale pirotecnico (e colpo di scena inaspettato) senza alcuna soluzione di continuità. Una magia che si ripete ogni volta che si schiaccia play. L’inversione del comparto strumentale, Petrucci sulle ritmiche e Portony all’assolo iconico, è uno degli apici della discografia degli statunitensi, degnamente immortalato nel live a Roseland, uscito niente meno che l’11 settembre 2001 (con tanto di “infelice” copertina con le Twin Towers in fiamme). Consigliamo, tuttavia, anche la più recente versione con Mangini alla batteria in Breaking the fourth wall, per tutti gli amanti dei confronti tra la diversa tecnica dei due maghi alle pelli.

This feeling
Inside me
Finally found my life
I`m finally free
No longer
Torn in two
I learned about my life by living through you

https://www.youtube.com/watch?v=TahmxpJA-Xs

Creatività Tecnica Testi Longevità
★★★★★ ★★★★★ ★★★★☆ ★★★☆☆

 

Gli anni Zero

Con il 2001 termina il decennio d’oro dei DT, che pur costellato da capolavori come Image and words, Awake e Scenes From A Memory, ha visto anche periodi difficili, su tutti il biennio ’95-’96. In realtà ci fu spazio anche per un ultimo colpo di coda e, a inizio 2002 (dopo il passaggio di John Petrucci alle chitarre Ernie Ball Music Man), venne pubblicato il doppio album Six Degrees Of Inner Turbulence, dalla copertina spiazzante e con un concept legato al tema della follia. Parliamo sempre di grande musica, basti pensare che il dittico si apre con l’instant classic “The glass prison” (che avvia la Twelve step suite, conclusa nel 2009) e si chiude con una title-track che supera i 40 minuti, classificandosi come composizione più lunga mai scritta dai DT.

Delle otto parti di cui si compone la suite (i testi sono scritti tutti da Petrucci e Portnoy) “Six degrees of inner turbulence” è difficile scegliere la migliore. Sicuramente vanno godute tutte nella versione live di Score con tanto di supporto orchestrale. La grandezza dei DT consiste come al solito nell’accostare il thrash di scuola Metallica a ballad strappalacrime, in questo caso le sfuriate di “War inside my head” / “The Test That Stumped Them All” e l’assolo magistrale di Petrucci in “Goodnight kiss”. Con il gong finale suonato da Portnoy in “Grand Finale” sembra davvero la fine di un’era per i nostri beniamini. Andare oltre, inventare qualcosa di radicalmente nuovo con un album ancora una volta diverso, ormai sembrava davvero difficile.

Ps Il concept dei sei personaggi legati alle varie forme di follia è stato magnificamente indagato nella fanzine monografica dell’Italian Dreamers, consiglio a tutti di trovarne una copia e leggerla attentamente.

Hope in the face of our human distress
Helps us to understand the turbulence deep inside
That takes hold of our lives
Shame and disgrace over mental unrest
Keeps us from saving those we love

https://www.youtube.com/watch?v=D33QzgK5pPk&t=873s

Creatività Tecnica Testi Longevità
★★★★★ ★★★★★ ★★★★☆ ★★★☆☆

 

La storia che i Dream Theater continuano a scrivere nel nuovo millennio purtroppo si fa meno convincente, come fisiologico, dopo quasi vent’anni dalla fondazione. E dire che lo stato di forma del gruppo americano è invidiabile, specie LaBrie, che dopo un duro confronto con gli altri membri della band aveva ribadito la sua volontà di restare parte del progetto musicale, tornando a prendere lezioni di canto e impegnandosi a rendere al meglio in sede live (sono ormai diversi gli anni trascorsi dal suo sfortunato incidente alle corde vocali).

Petrucci punta tutto sul comporre un album dal minutaggio limitato nel tentativo di sfornare un classico in stile The number of the beast e Master of puppets (dischi che si divertono a coverizzare interamente durante l’ultimo tour). Lo sfoggio di tecnica, velocità e potenza confluisce nel monolite oscuro a nome Train of thought, l’album con l’artbook basato su immagini surreali di Jerry Uelsmann.

All’epoca abbondarono le critiche, sembrava che fosse finita la magia che erano capaci di creare nei loro capolavori. Produzione troppo pesante, inutili concessioni al nu metal, un LaBrie irriconoscibile… Ad anni di distanza è stato rivalutato, specie pezzi come “As I Am”, “This dying soul”, “Stream of consciousness” (presente anche nel tour del quarantennale) e la conclusiva “In the name of god”. Ricordo la resa live di questo pezzo nel 2004, qualcosa di incredibile, soprattutto nella lunga sezione strumentale con legati e unisoni infiniti. Parliamo di pezzi cupi scritti in tempi cupi (parole di Portnoy nel riferirsi al post 9-11); nel caso specifico della traccia conclusiva di Train of thought, la tematica è quella del fondamentalismo religioso, sempre attuale purtroppo. Nella potenza barocca di “In the name of god” si scorge la genialità dei DT ormai farsi stereotipo e maniera. Il canto del cigno del difficile equilibrio tra visione progressive e dedizione metal. Ciò detto, parliamo di un brano che ancora oggi invoglia l’ascolto e stupisce per il mix pesante e cupo.

Religious beliefs
Fanatic obsession
Does following faith
Lead us to violence?

Unyielding crusade
Divine revelation
Does following faith
Lead us to violence?

https://www.youtube.com/watch?v=34HK44CeSMg

Creatività Tecnica Testi Longevità
★★★☆☆ ★★★★★ ★★★☆☆ ★★☆☆☆

 

Parlavamo di anniversari ormai alle porte per la band, che inizia a celebrare il proprio passato. Nel febbraio 2005 esce l’official bootleg When day and dream reunite che immortala lo show con l’intero primo album suonato in sede live (non potendo essere riregistrato in studio per motivi di copyright). Consigliamo la visione per farsi un’idea di come sarebbe potuto essere quel disco con LaBrie al microfono. C’è spazio, inoltre, per un cameo di Charlie Dominici e Derek Sherinian (Kevin Moore, pur invitato, non partecipò all’evento), che regalano momenti di pura nostalgia. Il live termina con una versione sui generis di “Metropolis pt. I”, l’eterno cavallo di battaglia dei newyorchesi. Per l’occasione Sherinian sfodera il suo miglior armamentario di sintetizzatori regalando una performance di tutto rispetto. Chissà come avrebbe suonato Train of thought con i suoi inconfondibili suoni acidi… (per la cronaca, Petrucci ricambiò il favore comparendo nel disco solista di Derek, Blood of the snake, del 2006, mentre con Portnoy avrebbe fondato i Sons of Apollo nel 2017).

The smile of dawn arrived early May she carried a gift from her home
The night shed a tear to tell her of fear and of sorrow and pain she’ll never outgrow
Death is the first dance, eternal

https://www.youtube.com/watch?v=FJLDAQv_gHA

Creatività Tecnica Testi Longevità
★★★★★ ★★★★★ ★★★★★ ★★★★★

 

Dopo un biennio di “vulgar display of prog” come il 2003-2004, quello che regalano i nostri nell’ultimo disco per Atlantic Records è un tributo agli anni Settanta, oltre a un concept meta-musicale (ogni pezzo in tonalità diversa, la musica come ottavario-prigione con la quale scendere a patti). Con la suite Octavarium, una delle composizioni più rappresentative di sempre della band, il delirio manieristico raggiunge la consacrazione definitiva. Sulla soglia dei quarant’anni, Petrucci, Myung e Portnoy (con l’aiuto del più anziano Rudess) si sentono i degni eredi di band come Yes, Pink Floyd, Rush e Genesis. Proprio da Foxtrot nasce l’idea di comporre una suite imprevedibile, con intenti deliranti e lynchiani (a detta dell’amante dei film Mike Portnoy). I cinque movimenti di Octavarium ancora oggi sono di difficile lettura. S’inizia con una lunga parte strumentale suonata da Rudess con continuum e lap steel guitar, che definire estenuante sarebbe riduttivo. Il brano cresce con le sezioni “Someone like him” e “Medicate”, con testi rispettivamente di Petrucci e LaBrie, ma è nelle due successive che avviene di tutto. Portnoy, ispirandosi alla visionarietà di “Supper’s ready” dei Genesis (suite inarrivabile e conseguimento del genio umano che andrebbe studiato a scuola) sconfina nel flusso di coscienza e nel non sense, permettendo a LaBrie di sfoderare delle linee vocali tra le più aggressive mai impiegate nei DT. Dopo due parti così claustrofobiche non poteva mancare l’ultimo movimento catartico, “Razor’s Edge”, con Petrucci a ricamare un assolo liberatorio da brividi che ogni volta in sede live strappa applausi e commozione.

Con Octavarium si chiude inevitabilmente una fase della storia dei DT: il brano termina in modo circolare e si arriva alla soluzione di continuità con i precedenti album (che risale al giradischi in loop di “Finally free”).

Flying off the handle be careful with
That axe Eugene gene the dance machine
Messiah light my fire gabba gabba
Hey hey my my generation’s home again

Running forward
Falling back
Spinning round and round
Looking outward
Reaching in
Scream without a sound

https://www.youtube.com/watch?v=2gf8_kVS1OE

Creatività Tecnica Testi Longevità
★★★★★ ★★★★★ ★★★★☆ ★★★★☆

 

Al prossimo mese per il terzo capitolo in cui si parlerà anche della nuova era con Mike Mangini!

つづく