Recensione: Hymns in Dissonance
Quest’anno è stato un vero e proprio trionfo per i fan del deathcore tra le uscite di Lorna Shore, Slaughter To Prevail e Whitechapel. Tre band ugualmente iconiche ma che incarnano ere diverse del genere con questi ultimi, i Whitechapel appunto, che appartengono decisamente a quella “vecchia guardia” che assieme ad altre band come i Suicide Silence, fecero esplodere il genere tra la metà e la fine degli anni duemila.
I Whitechapel tornano a quattro anni di distanza da Kin, un disco che proseguiva nelle sonorità più melodiche del precedente e acclamatissimo The Valley del 2019. Una doppietta di dischi che mescolava il tipico sound deathcore della band con delle aperture melodiche e degli stacchi acustici dove si poggiava la delicata voce in clean di Phil Bozeman, passando quindi da sezioni terremotati ad altre che non avrebbero sfigurato in un disco degli Staind. Ma con questo disco la band cambia registro, o meglio strizza l’occhio di nuovo al passato.
Tra l’altro è curioso notare come quando un gruppo estremo afferma di aver partorito “il loro disco più brutale e pesante”, solitamente si etichettano queste parole come le tipiche “frasi di rito” per far incuriosire i fan, eppure è stato chiaro sin dal singolo A Visceral Retch che la band non scherzava affatto. Anche i contenuti lirici cambiano con la musica dato che se Kin e The Valley raccontavano due storie in vena horror/fantastica dove però il contesto dei racconti non erano nient’altro che una metafora di un vissuto personale, esplorando delle questioni molto interiori da parte del vocalist Phil Bozeman, qui il concept del disco non è altro che una prosecuzione del disco dei Whitechapel This Is Exile del 2008.
Il disco infatti ci introduce ad un personaggio malefico senza nome, leader di un culto (tra l’altro fratello di Daemon, che appare proprio nel disco This Is Exile). Il suo obbiettivo è di trovare adepti pronti a congiungersi alla sua causa ossia quella di resuscitare il proprio padre, riferito come “il dio del male”, accingendosi a mettere in atto nel vero senso della parola i sette peccati capitali che sono rappresentati dalle ultime sette canzoni. Solo in questo modo ed attraverso questi atti che il portale verrà aperto, riportando il vita questo malefico personaggio. Insomma un concept che non manca di liriche dai contenuti splatter e violentissimi, spinti all’inverosimile, per una storia che diciamoci la verità, risulta abbastanza infantile e che potrà essere apprezzata probabilmente solo dai fan degli horror/splatter. D’altronde il tono dei testi è in perfetta sintonia con la brutalità del disco che davvero non lascia respiro dall’inizio alla fine nel corso delle sue nove canzoni, un intermezzo e i suoi quarantatré minuti di durata.
Il disco come abbiamo detto dunque, è più vicino allo stile di This Is Exile piuttosto che a quello di The Valley e Kin, per buona pace di chi aveva adorato quei due platter che a questo punto potrebbero rimanere “un unicum” nella discografia della band. Eppure si ha l’impressione che la band statunitense abbia imparato molto lungo il cammino sotto tanti punti di vista. Prima di tutto dal punto di vista della produzione che è assolutamente una gioia per le orecchie, anche qui davvero al limite della perfezione come quelle dei precedenti due platter d’altronde. In secondo luogo la varietà e la tecnica stilistica di Phil alla voce, capace di passare da un growl iper-gutturale e bassissimo a degli scream molto più alti e penetranti. Insomma un range invidiabile ma ovviamente (e con nostro grande rammarico), manca la voce pulita.
La brutalità in questo disco è un turbine senza fine anche se trapela in modi diversi, talvolta anche con pezzi meno voraci e veloci, ma più groovy e sludgy che hanno quei riff trascinati e macabri che fanno comunque trasudare i suddetti brani di un’atmosfera maligna e malsana.
Prisoner 666 che apre il disco è il classico esempio di un pezzo che non parte a tremila ma che ci sotterra con dei groove sferzanti e ribassati. La title-track invece spinge subito sull’acceleratore con dei blast-beat a mitragliatrice e con alcuni dei riff più taglienti e meglio riusciti del disco. Hymns In Dissonance d’altronde è un titolo perfetto, non solo per il pezzo ma per l’album in generale, dato che la “dissonanza sonora” è uno degli aggettivi che meglio potrebbe descrivere questo disco dove breakdown devastanti, assoli fulminei e caotici quasi di stampo slayeriano ed un oceano di brutalità ci sotterrano secondo per secondo. Ecco qui dunque le caratteristiche del deathcore nella sua essenza, genere dove i Whitechapel sono dei maestri indiscussi.
La violenza è disarmante anche nei testi. La descrizione dell’impalamento nel senso più “letterario” e crudo del termine viene convogliato attraverso queste parole “behold the rusted piece that you sit on, feel it penetrate as above so below, it’s the last thing you will taste, the shit runs deep….. as you lay impaled on this inverted cross”. Seguito da un inno a satana riprodotto in senso inverso… Insomma, abbiamo capito il tenore dei testi!
Diabolic Slumber anch’esso ha un titolo azzeccato. Rappresenta la messa in atto del primo dei sette peccati capitali ed ancora più azzeccato è il titolo del seguente brano, A Visceral Retch – il rigurgito viscerale- rappresentazione perfetta del suono malato del pezzo con delle vocals di Phil particolarmente basse e disturbanti, dove in una sezione del brano quasi “mimica” un rigurgito vero e proprio con il suono della voce. Il peccato dell’ingordigia/voracità viene affrontato in questo brano dove gli adepti più spietati vengono selezionati in base a delle “prove” che devono eseguire per dimostrare la loro spietatezza ed efferatezza.
Ex Infernis è un intermezzo fatto di ritmi tribali che si accentuano mano mano, per una sezione che di musicalmente interessante non ha assolutamente nulla ma che stata posta a questo punto solamente per spezzare il ritmo prima di riprendere in maniera forsennata con un altro pezzo da novanta del disco.
Hate Cult Ritual è un pezzo di una velocità e una pesantezza disarmante – “We hunt, we kill, we feast, we conquer”- un chorus che ti si stampa in testa e che non ti lascia più che viene seguito da una delle sezioni più estreme di tutto il disco. L’ira è parte focale del brano, sia nella musica che nel titolo, che nel testo, dove gli adepti distruggono tutto ciò che li circonda con voracità e violenza.
The Aysmal Gospel continua con il piede sull’acceleratore, rappresentando l’orgoglio come uno dei sette peccati capitali. In questo caso il “Prigioniero 666” si erge come Dio dinnanzi ai suoi adepti.
Bedlam rappresenta l’invidia e stavolta i Whitechapel decidono di scrivere un pezzo più cadenzato senza sacrificare la brutalità che li contraddistingue. Eppure qualcosa funziona di meno in questo brano che probabilmente risulta il punto debole del disco. Inizia anche a farsi intravedere il limite di questo nuovo platter della band statunitense, ossia una mancanza di varietà che per chi scrive è un qualcosa che alla lunga penalizza il disco soprattutto se paragonato ai precedenti due.
In Mammoth God colpiscono le vocals di Phil più vicine che mai ad uno scream di stampo black metal, prima di tuffarsi nuovamente nella sua timbrica più consona. Quel “SUFFER!” ripetuto di continuo sotto un oceano di blast-beat ancora una volta fa tremare i nostri padiglioni auricolari prima che l’atto conclusivo del disco ci doni un barlume di melodia, con un assolo finale dal sapore inaspettatamente caldo e avvolgente che finisce in fade-out.
Il rituale è completo, i Whitechapel ci hanno stavolta offerto un disco che rappresenta più un ritorno al passato dal punto di vista sonoro che un’evoluzione di The Valley e Kin, per un lavoro che spaccherà la fanbase a metà tra coloro che hanno scoperto la band nel periodo più recente e più “sperimentale” e i fan del deathcore più “old school” che probabilmente verranno mandati in brodo di giuggiole da questo nuovo full-lenght. Per quanto riguarda la qualità, il lavoro partorito a livello di suono,produzione, songwriting, è senz’altro di livello e anche per quanto riguarda le liriche, sicuramente il tema così macabro, horrorifico e al limite dello splatter, si addice alle caratteristiche sonore del disco. Eppure la varietà compositiva rimane un elemento che sicuramente manca rispetto ai precedenti due lavori. Insomma se Kin e The Valley potevano essere amati da un pubblico metal più ampio, Hymns In Dissonance è più un lavoro dedito esclusivamente ai fan del deathcore. Non che questo sia necessariamente un male.


