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L’inevitabile abbraccio tra heavy metal e morte

Di Carlo Passa - 22 Aprile 2020 - 9:50
L’inevitabile abbraccio tra heavy metal e morte

Se scorro la mia collezione di dischi, uguale e diversa da quella di tutti voi, incappo così di frequente nella morte: non smette di ricorrere nei nomi delle band, nei titoli di dischi e canzoni, nelle iconografie delle copertine. E se mi guardo allo specchio, vedo teschi che interrompono il nero sbiadito della t-shirt, mentre alle mie spalle l’ombra di una falce si staglia su un poster.

L’ampia diffusione del tema della morte nell’heavy metal è strettamente legata alla carica ribelle ad esso connaturata.
Dopo millenni di naturale, esplicita, a tratti opprimente presenza della morte nella quotidianità degli uomini, il benessere che il mondo occidentale è riuscito a procurarsi nel corso della seconda metà del novecento ha portato alla sua progressiva rimozione, sociale e culturale, dalle nostre vite.
Il memento mori medievale si è ridotto alla battuta di un (grande) film comico, mentre la vita si è fatta sempre più lunga, la medicina sempre più potente, l’uomo sempre più dimentico della propria mortalità.

Non è un caso che l’heavy metal nasca proprio alla fine del decennio d’oro per eccellenza del secondo dopoguerra, quegli anni sessanta culminati sì nella summer of love del ’67, ma anche nei delitti della Family di Charles Manson (1969), che della cultura hippie furono la tangente impazzita.
All’alba del nuovo decennio, che si sarebbe rivelato così diverso dal suo predecessore, uscì quel “Black Sabbath” che è unanimemente considerato la prima pietra di fondazione del genere. E la ragione per cui delle tre grandi band “dure” degli anni settanta, Led Zeppelin, Deep Purple e Black Sabbath, sono questi ultimi a meritarsi il ruolo di padri dell’heavy metal va trovata non solo e non tanto nella pesantezza pachidermica di certi riff di Toni Iommi, quanto nell’iconografia di quella prima, fondamentale copertina, così come nell’aura vagamente maligna che subito circondò la band; fissando così quelli che saranno i temi e l’immagine del genere che da lì sarebbe scaturito.

Un genere musicale che nasce esplicitamente anticonformista deve portare in primo piano quanto la società vuole rimuovere, perché oscuro e doloroso: e la morte s’impone, così, quasi inevitabilmente, come il tema per eccellenza di quel genere. Ecco, dunque, che, se il cristianesimo è la vittoria della vita sulla morte (che, però, non è certo dimenticata nelle nostre Chiese), l’heavy metal si fa anticristiano; se la musica leggera celebra l’amore, l’heavy metal offre la colonna sonora all’odio; se la società esalta la bellezza, l’heavy metal indaga l’orribile; se una sua costola si tinge di colore, l’heavy metal la considera spuria (quanto disprezzo per l’hair metal!).

Uno sguardo superficiale e disinformato sul panorama heavy metal porterebbe a ipotizzare che gli appassionati del genere siano per lo più dei violenti repressi, socialmente isolati e minati dalla misantropia. E invece non è così. Oggi che il genere ha alle spalle mezzo secolo di storia, si scovano metallari in tutti gli strati della società: persone perfettamente integrate e orgogliose della propria passione, che sorridono dello stupore di chi la scopre in loro e non se ne capacita.
Se l’heavy metal non ha intaccato la vita sociale del suo fan, gli ha spesso affinato la sensibilità, certo già presente nel ragazzo che si accosta a quei dischi dalle copertine truci. Perché scartare dalla celebrazione collettiva del bello banalizzato e della vita troppo goduta significa essere dotati di una sensibilità distintiva: l’heavy metal è il liquido di contrasto che la fa risaltare.

Ma il metallaro non è, per questo, esorcizzato dalla morte. Certo, mettersela costantemente dinanzi è un tentativo di catartizzarne la paura, attraverso la pietà che si prova per quanto il mondo rimuove e l’heavy metal ripropone. Provare a catartizzare la morte attraverso la sua ripetuta rappresentazione significa innanzitutto averne rispetto (non così diversamente dal Cristianesimo), ovvero essere coscienti della sua presenza: una presenza che fa paura, una paura che il mondo non vuole vedere e che l’heavy metal pone in primo piano; proprio per opporsi al mondo.

Oggi quel mondo occidentale che aveva deciso di chiudere a chiave la morte nell’armadio delle cose vecchie si trova ad inciamparci in ogni angolo della casa. La sicura tracotanza con cui l’uomo contemporaneo correva lungo le proprie autostrade è stata d’improvviso travolta da un virus talmente piccolo che neppure si può immaginare. D’improvviso la morte ci circonda, si è ripresa i titoli dei giornali e ci fa sentire così fragili.

Il metallaro non è tetragono rispetto alla tragedia che sfila invisibile nelle nostre vite.
Ma la coscienza della morte lo fa più sensibile e, per questo, forse più forte, forse più debole degli altri…