Metal, Hard Rock & Cinema, quando le chitarre distorte incontrano la settima arte

Dopo aver esplorato il mondo dello stile e di come la moda abbia adottato borchie e affini, proseguiamo con l’influenza culturale dell’Heavy Metal e dell’Hard Rock, rivolgendo la nostra attenzione al grande schermo.
Il cinema, in quanto macchina da sogni e specchio della cultura, ha sempre cercato la colonna sonora perfetta per amplificare le sue visioni. Quando si tratta di esprimere ribellione, potenza, dramma gotico, un’energia inarrestabile, o semplicemente kitsch, pochi generi musicali sono stati più efficaci dell’Heavy Metal e dell’Hard Rock. Queste sonorità aggressive e distorte non si sono limitate a fare da sfondo, ma sono diventate parte integrante della narrazione, dell’estetica e, in alcuni casi, del cuore pulsante dei film.
Tralascerò volutamente i vari biopic per addentrami più nelle opere che utilizzano l’estetica e la musica metal come metafora narrativa, esplorando temi di ribellione, identità, caos sociale e horror, esplorando l’uso di questo genere come veicolo per la satira e la critica delle convenzioni sociali.
Il legame tra questi generi e la celluloide fiorì prepotentemente negli anni ’80, decennio in cui l’immaginario fatto di giacche di pelle, capelli lunghi, chitarre sferzanti e un’attrazione per il macabro si sposò perfettamente con i generi più cult e di nicchia dell’epoca, in particolare l’horror e la fantascienza. Sicuramente avrò involontariamente dimenticato alcuni titoli e chiedo venia.
Un esempio fondamentale ed iconico di questa fusione è l’animazione a episodi “Heavy Metal” del 1981 di Gerald Potterton. Ispirato all’omonima rivista di fantascienza e fantasy per adulti, il film è un viaggio psichedelico e violento la cui iconica colonna sonora, con brani di band come Black Sabbath, Blue Öyster Cult, Cheap Trick e Grand Funk Railroad, funge da tessuto connettivo tra storie di guerrieri spaziali e eroine vendicatrici.

I precursori però, sono altri due film di culto, “Il Fantasma del Palcoscenico” e “The Rocky Horror Picture Show”.
“Il Fantasma del Palcoscenico” (Phantom of the Paradise), film fondamentale nella carriera di Brian De Palma, un musical-horror del 1974 è diventato un vero e proprio cult movie.
Il film è una brillante fusione e rielaborazione di diversi classici letterari e cinematografici, in chiave rock, glam e grottesca de “Il fantasma dell’Opera“, “Notre-Dame de Paris”, “Il ritratto di Dorian Gray” e “Faust”. Il film è stato lanciato sul mercato col sottotitolo: “Ha venduto la sua anima per il rock and roll”.
La storia segue Winslow Leach, interpretato da William Finley, un compositore ingenuo e talentuoso al quale il cinico e potente produttore discografico Swan, interpretato dal compositore della colonna sonora, Paul Williams, ruba la musica per inaugurare il suo nuovo teatro, il Paradise. Dopo essere stato incastrato e sfigurato in un incidente, Winslow si trasforma nel Fantasma del Paradise, mascherato e assetato di vendetta, ma determinato a proteggere l’unica persona che può cantare la sua musica, l’aspirante cantante Phoenix , interpretata da Jessica Harper.
L’attore che interpreta Swan, Paul Williams, è anche l’autore della straordinaria colonna sonora, che spazia attraverso vari generi musicali dell’epoca, glam rock, surf rock, rock and roll degli anni ’50, ecc., con una vena dark e beffarda. La colonna sonora ha ricevuto una Nomination all’Oscar e ai Golden Globe nel 1975. Lo stile visivo è un tripudio di manierismo, esuberante, grandangoli, split screen. Una pellicola considerata profetica per la sua rappresentazione della cultura delle celebrità e del riciclo delle mode musicali. un’opera rock satirica e visionaria, piena di energia e critica sociale, che ha anticipato l’onda dei musical horror che sarebbe arrivata poco dopo con “The Rocky Horror Picture Show”.


“The Rocky Horror Picture Show” (1975) è molto più di un semplice film, è un vero e proprio fenomeno culturale e pellicola di culto per eccellenza, diretto da Jim Sharman e basato sul musical teatrale di Richard O’Brien, che nel film e nello spettacolo interpreta il ruolo di Riff Raff, il maggiordomo gobbo. l film segue le vicende di Brad Majors interpretato da Barry Bostwick e Janet Weiss interpretata da Susan Sarandon, una coppia di fidanzati convenzionali degli anni ’50. Il personaggio più iconico è senza dubbio il Dottor Frank-N-Furter, interpretato in modo indimenticabile da Tim Curry, il simbolo stesso di cui tratta il film: edonismo, fluidità di genere e libertà sessuale
Il film è una parodia irriverente dei B-movie di fantascienza e horror degli anni ’30-’50 con il genere musicale predominante di glam rock, rock and roll / rockabilly anni ’50.
Il primo musical “The Rocky Horror Picture Show” ha debuttato il 16 giugno 1973, al Royal Court Theatre di Londra.


Parallelamente, in Italia, maestri dell’horror come Dario Argento e Lamberto Bava abbracciarono pienamente l’Hard & Heavy. In film come “Phenomena” del 1985 e “Demoni” uscito nello stesso anno, in “Phenomena” i Goblin hanno avuto un ruolo fondamentale, Argento incluse anch la canzone “Flash of the Blade” degli Iron Maiden, tratta dall’album “Powerslave” e, per consolidare ulteriormente il suo legame con la musica Metal, venne incluso anche “Locomotive” dei Motörhead. Ci fu però un radicale cambiamento, quando “Phenomena” fu distribuito negli Stati Uniti con il titolo “Creepers”. La distribuzione americana apportò modifiche radicali alla colonna sonora, eliminando o tagliando gran parte del lavoro dei Goblin e privilegiando brani Heavy Metal già noti al pubblico per ragioni commerciali, alterando l’equilibrio sonoro originale del regista.
La musica in “Demoni” di Bava, in particolare, è letteralmente parte del contesto narrativo, con le chitarre distorte che tuonano dalle casse del cinema dove si svolge l’apocalisse, non è un mero accompagnamento, ma una scarica di adrenalina che sottolinea i momenti di massima tensione e terrore, cementando l’associazione del Metal con l’immaginario orrorifico.
Questa interazione divenne così marcata che intere trame vennero costruite attorno al genere, come in “Morte a 33 Giri” (Trick or Treat, 1986), dove il regista Charles Martin Smith fa ruotare la storia attorno al fantasma di una rockstar Metal, Sammi Curr, che comunica attraverso un disco suonato al contrario, con la band Fastway a curare l’intera colonna sonora. Memorabile il cameo ironico di Ozzy Osbourne in cui interpreta il reverendo Aaron Gilstrom, predicatore televisivo bigotto che denuncia la “pornografia nel rock” Ozzy nei panni del suo peggior nemico, il censore, mentre, Gene Simmons nel ruolo del DJ radiofonico Nuke. Simmonsche in realtà avrebbe dovuto interpretare il ruolo di Sammi Curr, ha scelto l’altro ruolo per rendere omaggio al famoso DJ Wolfman Jack, suo idolo d’infanzia. Sammi Curr invece, è interpretato dallo scomparso ballerino Tony Fields, che ha lavoratoanche in alcuni video di Michael Jackson.
Se anche voi avete visto questo film proprio l’anno della sua uscita, avete avuto un’adolescenza felice.


Nello stesso periodo, Stephen King, nella sua unica incursione alla regia con “Brivido” dei Maximum Overdrive nel 1986, scelse di musicare l’intera apocalisse meccanica esclusivamente con il potente Hard Rock degli AC/DC. King è sempre stato un grande fan degli AC/DC, la scelta di utilizzare esclusivamente gli AC/DC fu dettata dal desiderio di dare al film un’identità sonora inconfondibile e potente. La collaborazione non si limitò all’uso di brani già noti come il guà citato “Hells Bells” o “You Shook Me All Night Long”; gli AC/DC accettarono di comporre nuovo materiale appositamente per il film. Questo portò alla creazione dell’album “Who Made Who”, che funge da colonna sonora del film.
Il brano eponimo, “Who Made Who”, fu scritto per l’occasione ed esplora il concetto del film: chi ha creato chi, l’uomo o la macchina? Il video musicale ufficiale del brano presenta scene tratte dal film. L’album contiene anche altri brani strumentali nuovi come “D.T.” e “Chase the Ace”, oltre a una raccolta di vecchi successi della band.
Con l’arrivo degli anni ’90, la subcultura Metal e Hard Rock divenne spesso il soggetto della narrazione, piuttosto che solo lo sfondo. La commedia “Fusi di Testa” (Wayne’s World, 1992), pur concentrandosi sul Rock classico, consacrò la figura del “metallaro nerd”. La pellicola si distingue per una serie di camei notevoli che arricchiscono la narrazione e l’umorismo. Tra le apparizioni più rilevanti, si annovera quella di Alice Cooper e della sua band, che interpretano loro stessi. La presenza di Chris Farley nel ruolo del buttafuori del locale, il quale fornisce ai due protagonisti le informazioni essenziali per stabilire un contatto con il produttore discografico. Inoltre, Meat Loaf compare nei panni del gestore del locale, scenario del primo incontro tra Wayne e Cassandra. Infine, il cast è completato dal contributo di Robert Patrick, che offre una divertente parodia del suo celebre personaggio in “Terminator 2 – Il giorno del giudizio”. Al grande pubblico rimase impresso il celebre headbanging su Bohemian Rhapsody dei Queen.
In anni più recenti, il cinema ha esplorato a fondo le storie reali e fittizie legate al rock. il film “Rock Star” diretto da Stephen Herek nel 2001, inrpretato da Mark Wahlberg e Jennifer Aniston. La pellicola narra la vicenda di un giovane musicista dilettante che realizza la sua aspirazione, venendo selezionato come cantante e front-man di una rinomata heavy metal band di cui è da sempre un fan. Ambientata nel decennio degli anni ottanta, la pellicola offre un’analisi approfondita della quotidianità di una heavy metal band di successo, descrivendone gli elementi tipici, tra cui tour, concerti, l’abuso di sostanze e alcolici, e le dinamiche relazionali con le groupie. La band al centro della narrazione, gli Steel Dragon, è fittizia. Tuttavia, è ampiamente riconosciuto che la sua genesi e gran parte degli sviluppi narrativi siano ispirati alla storia e alle dinamiche interne del gruppo musicale realmente esistente dei Judas Priest.
“Still Crazy”, film del 1998 diretto da Brian Gibson film è ispirato al ritorno in scena degli Animals. Con il sottile umorismo nero britannico e tonalità pacatamente tragiche, la pellicola ritrae la band fittizia Strange Fruit nel suo tentativo di riunirsi dopo un ventennio di assenza, con l’obiettivo di sfruttare un’ultima volta l’ondata nostalgica degli anni ’70. Il livello del cast è impeccabile, Stephen Rea, che interpreta il tastierista Tony, conferma il proprio valore artistico dopo alcune scelte cinematografiche meno incisive, dimostrando di poter eccellere anche al di fuori della supervisione di Neil Jordan. La performance più incisiva è offerta da Bill Nighy, nel ruolo del cantante Ray, personaggio che si aggrappa a una carriera solista destinata al fallimento, veste con abiti che sarebbero stati orribili già negli anni ’70 e ha una psichemolto fragile. Il personaggio del chitarrista Brian è ricalcato sulla sagoma di Syd Barrett. Parte tutto dal 1977, la città di Wisbech fu teatro di un leggendario festival rock, durante il quale gli Strange Fruit, si affermarono tra i protagonisti più acclamati. Tuttavia, a distanza di un ventennio, il panorama è radicalmente mutato. Gli Strange Fruit si sono sciolti in modo traumatico e controverso, e i singoli membri si sono dispersi. Si ritrovano in una condizione di mediocrità e disagio economico, ben lontana dal successo e dalla fama precedentemente conseguiti. Un film nostalgico, divertente ed allo stesso tempo commovente. Le musiche ed i testi di Mick Jones (Foreigner) e Chris Difford (Squeeze). In assoluo tra i miei film preferiti!


“Velvet Goldmine” (1998) diretto da Todd Haynes, è considerato un’ode visivamente sfolgorante e concettualmente complessa connessa al movimento del glam rock britannico dei primi anni Settanta, un’epoca di rivoluzione estetica, ambiguità sessuale e ostentata effeminatezza. Una fiaba surreale e post-moderna, fortemente ispirata alle figure di David Bowie e Iggy Pop, sebbene i personaggi siano fittizi. Il film adotta una struttura non lineare sviluppandosi come un’inchiesta giornalistica. L’azione principale si svolge nel 1984 con Arthur Stuart (Christian Bale) nel ruolo di un giornalista che viene incaricato di indagare sulla misteriosa scomparsa dalla scena musicale della rockstar Brian Slade (Jonathan Rhys-Meyers), avvenuta dieci anni prima. Brian Slade, con il suo alter ego androgino Maxwell Demon, aveva simulato la propria morte sul palco nel 1974 e da quel momento era sparito. Arthur, che in gioventù era stato un grande fan e aveva frequentato la scena glam rock come modo per esplorare la propria identità, usa l’indagine per ricostruire la carriera di Slade e rivivere i suoi ricordi. Nonostante il rifiuto di David Bowie di autorizzare l’uso delle sue canzoni, Brian Slade è chiaramente ispirato a Ziggy Stardust, mentre Curt Wild ha forti richiami a Iggy Pop e Lou Reed. La colonna sonora è fondamentale con brani glam rock dell’epoca, come T. Rex, Roxy Music, Brian Eno che vengono reinterpretati da gruppi e artisti contemporanei per il film, tra cui i Placebo, Thom Yorke dei Radiohead e gli stessi Ewan McGregor e Jonathan Rhys-Meyers. Una pellicola visiva esagerata, fiabesca e molto kitsch che, pur non essendo stata un successo commerciale immediato, è diventata un cult movie per il suo stile, il suo ritratto viscerale e malinconico di un’epoca che ha riscritto le regole della cultura pop.
“Rock of Ages“ (2012), diretto da Adam Shankman, non è altro che l’adattamento cinematografico dell’omonimo musical di Broadway, che celebra l’epoca e l’estetica dell’hair metal e dell’arena rock degli anni ’80. Ambientato nel 1987 a Los Angeles, la trama ruota attorno al leggendario club “The Bourbon Room” sul Sunset Strip. La figura centrale è Stacee Jaxx, interpretato da Tom Cruise, l’enigmatico frontman della band Arsenal. Il club spera di salvare le proprie finanze ospitando il concerto d’addio di Jaxx e della sua band. Il film include brani dei Journey, Bon Jovi, Def Leppard, Foreigner, Poison, Scorpions e Twisted Sister. Le canzoni vengono eseguite dal cast, spesso con voci modificate per adattarsi al genere. Cruise ha cantato personalmente tutte le sue parti e ha incarnato l’attitudine eccessiva e dissoluta tipica delle rockstar dell’epoca. Anche questo film è visivamente saturo dell’estetica glam degli anni ’80, celebrando in modo esagerato lo stile di quel decennio.
Entrambi i film sono un nostalgico omaggio al glam rock, esagerati e volutamente kitsch, “Rock of Ages“ ha però una narrativamente debole.
Il film “School of Rock” (2003), con protagonista Jack Black, è celebre proprio per aver celebrato l’Hard Rock classico, non solo come fondamento, ma come una vera e propria forza vitale della musica moderna. Il personaggio principale, Dewey Finn, incarna la passione assoluta per l’Hard Rock. La sua intera missione nel film è liberare i bambini e la musica dalle catene del pop e dell’omologazione, insegnando loro che le vere radici si trovano nei riff potenti e nell’energia grezza dei gruppi classici.
Dewey non insegna semplicemente la musica; insegna la storia, l’atteggiamento e la filosofia dell’Hard Rock. Gran parte del merito va a Jack Black, che è un musicista nella vita reale con i Tenacious D, e allo sceneggiatore Mike White, che hanno infuso il copione con un amore genuino e profondo per il rock. Il film è diventato un successo planetario ed è spesso citato da musicisti e fan come l’opera che ha infiammato la loro passione per la musica rock.

“La Regina dei Dannati” (Queen of the Damned) 2002 diretto da Michael Rymer e basato sui romanzi di Anne Rice, è il seguito di “Intervista col Vampiro” (1994) e si concentra sulla figura del vampiro Lestat de Lioncourt, interpretato da Stuart Townsend. Annoiato dalla sua immortalità, Lestat si risveglia da un lungo sonno e diventa il cantante di un’influente band Heavy Metal. La sua musica, però, ha il potere di risvegliare Akasha, interpretata dalla compianta Aaliyah, l’antica e potente Regina dei Dannati. Il film non ha avuto lo stesso successo critico del suo predecessore, ma è diventato un piccolo cult, in gran parte grazie alla sua estetica gotica e alla colonna sonora. Tutti i brani attribuiti alla band di Lestat nel film — “System”, “Slept So Long”, “Not Meant for Me”, “Forsaken” e “Redeemer” — sono stati scritti e composti dal frontman dei Korn, Jonathan Davis, in collaborazione con il compositore Richard Gibbs. Jonathan Davis non ha potuto cantare le tracce sull’album ufficiale a causa di vincoli contrattuali con la sua etichetta discografica. Di conseguenza, ha chiamato a raccolta alcune delle voci più celebri della scena Hard Rock e Nu Metal dell’epoca per registrare le voci finali della colonna sonora come Chester Bennington dei Linkin Park, Jay Gordon degli Orgy, Wayne Static degli Static-X, David Draiman dei Disturbed, Marilyn Manson, Deftones, Papa Roach e Godhead. La colonna sonora del film è il punto cruciale, rappresentando un vero e proprio manifesto del sound Nu Metal e Gothic Rock dei primi anni 2000. Una curiosità è che in alcune edizioni speciali e nel DVD/Blu-ray sono state incluse le demo cantate da Jonathan Davis stesso.
La tendenza contemporanea vede il Metal e l’Hard Rock utilizzati per la loro implacabile carica d’azione ed epicità. Sebbene “Guardiani della Galassia” di James Gunn abbiano privilegiato il Rock classico, il suo approccio rispecchia l’estetica ribelle e la potenza dell’Hard Rock come parte integrante dell’identità del protagonista. Similmente, il franchise di “John Wick” usa sapientemente elementi Hard Rock e Metal per dare un ritmo serrato e violento alle sue scene di combattimento frenetico. A differenza di “Guardiani della Galassia”, la musica di “John Wick” si basa principalmente su una colonna sonora originale composta da Tyler Bates e Joel J. Richard, integrata da brani di musica elettronica, techno e rock che sottolineano le scene d’azione nei club. “Killing Strangers” di Marilyn Manson è stato usato nel secondo film.
Arriviamo al discusso “Lords of Chaos” (2018) di Jonas Åkerlund e ai “docufilm” di Varg Vikernes.
La pellicola ha affrontato gli aspetti cruciali del progetto Burzum, in particolare la sua componente musicale e l’atto omicida ad esso collegato.Illustra il sound grezzo, lo-fi e ripetitivo che caratterizza il raw black metal, un genere che Vikernes ha in gran parte plasmato con i primi album di Burzum, quali “Burzum”, “Det som engang var “e “Hvis lyset tar oss”. È rilevante notare il contrasto intrinseco: la musica di Burzum, sebbene realizzata con strumentazione rudimentale, si distingueva per la sua natura più atmosferica e pagana, differenziandosi nettamente dal death/black metal più diretto dei Mayhem. La pellicola accenna a tale divergenza, mostrando Vikernes al lavoro in solitudine, enfatizzando così la dimensione intrinsecamente solitaria e introversa che definisce il progetto Burzum. Una sezione intensa del film è dedicata all’episodio per cui Varg Vikernes è tristemente noto: l’assassinio di Euronymous (Øystein Aarseth), avvenuto a Oslo nell’agosto del 1993. È opportuno ricordare che Vikernes fu condannato per l’omicidio, consumato con 23 pugnalate, oltre che per tre incendi dolosi a chiese. La narrazione di “Lords of Chaos” interpreta l’omicidio non come un gesto puramente ideologico, ma piuttosto come il culmine brutale di una combinazione di paura in quanto Vikernes era convinto che Euronymous intendesse torturarlo, paranoia e una lite degenerata. Tale interpretazione è stata una delle principali ragioni di contestazione da parte di Vikernes stesso, il quale ha sempre sostenuto la natura esclusivamente difensiva dell’atto.
L’uscita del film è stata fin da subito accompagnata da notevoli polemiche. Queste controversie non sono emerse da un disaccordo sul valore cinematografico dell’opera, quanto piuttosto dalla profonda frizione tra la sua rappresentazione narrativa e la percezione degli eventi da parte dei diretti protagonisti.
La critica più aspra è giunta da Varg Vikernes che ha pubblicamente e con veemenza rigettato la pellicola, definendola una fesseria inventata e un tentativo di omicidio del suo personaggio. Le sue obiezioni si sono concentrate sull’accuratezza fattuale: egli ha contestato la scelta dell’attore che lo interpreta, e ha soprattutto respinto l’interpretazione filmica dell’omicidio di Euronymous. Mentre il film suggerisce una combinazione di paranoia e una lite degenerata, Vikernes ha costantemente insistito sul fatto che l’atto fosse esclusivamente di natura difensiva. Parallelamente, il film ha incontrato una diffusa resistenza da parte di molti musicisti e veterani della scena black metal norvegese. Figure chiave, inclusi membri di band fondamentali come i Mayhem e gli Emperor, si sono apertamente dissociati dal progetto. Questo dissenso si è manifestato concretamente nel rifiuto di concedere i diritti musicali per la maggior parte dei brani originali, obbligando la produzione a ricorrere a sound-alike o tribute band. Questa presa di distanza è stata alimentata dalla percezione che la produzione avesse “hollywoodizzato” o dato un trattamento eccessivamente melodrammatico a eventi che, per la sottocultura, sono considerati al contempo un mito fondativo e un profondo trauma.
“Pure Fucking Mayhem” (2008), diretto da Stefan Rydehed, rappresenta una risorsa significativa per comprendere la storia di una delle band più influenti e controverse della storia del black metal norvegese, i Mayhem. L’opera si concentra sul periodo cruciale della band, che va dalla sua fondazione nel 1984 fino al culmine degli eventi traumatici del 1993, inclusi il suicidio del cantante Dead e l’omicidio di Euronymous (Øystein Aarseth) per mano di Varg Vikernes (Count Grishnackh). Il film traccia l’evoluzione dei Mayhem, esplorando l’ambiente culturale e sociale che portò alla nascita della seconda ondata del Black Metal norvegese, con la sua estetica aggressiva e l’ideologia nichilista. Il documentario si basa su interviste con i membri della band e figure chiave del loro entourage, come il bassista Necrobutcher (Jørn Stubberud) e il batterista Hellhammer (Jan Axel Blomberg), fornendo un resoconto dall’interno. Come anticipato, la narrazione è inscindibilmente legata alla figura di Varg Vikernes, che fu il bassista della band per un breve periodo e il responsabile dell’omicidio di Euronymous. Il film include materiale d’archivio e, talvolta, riferimenti o citazioni che offrono la sua prospettiva sugli eventi e sul clima di megalomania e oscurità che circondava Euronymous. Ad esempio, nel documentario, Vikernes commenta il “teatro” che Euronymous costruiva attorno alla sua immagine. Oltre a raccontare i Mayhem, il documentario funge da finestra su tutta la scena: gli incendi alle chiese, l’ Inner Circle di Oslo e la tensione crescente che portò agli atti di violenza. A differenza del film di finzione “Lords of Chaos”, “Pure Fucking Mayhem” si presenta come un’opera di stampo documentaristico, sebbene non priva di drammaticità, offrendo uno sguardo più diretto e crudo, sebbene talvolta lo-fi nel materiale d’archivio, che riflette l’estetica stessa della scena. In sostanza, è considerato un’importante testimonianza visiva per chiunque voglia comprendere il contesto e i personaggi al centro di uno dei periodi più oscuri e influenti della storia della musica metal.

“ForeBears” (2013), Il film/documentario opera di Vikernes e diretto da sua moglie Marie Cachet, si configura come l’espressione più diretta e sistematica del suo corpus ideologico, noto come Thulêan. Questo lavoro audiovisivo non è un mero esercizio cinematografico, ma piuttosto un manifesto filosofico e culturale. Il nucleo tematico di “ForeBears” risiede in un rifiuto radicale della società contemporanea. L’opera si pone in netta opposizione alla cristianità, alla cultura di massa e alla modernità in senso lato, propugnando invece un imperativo ritorno alle radici della civiltà europea e nordica. In questo contesto, diviene implicito il concetto di “Sangue e Terra”, enfatizzando il lignaggio, i “ForeBears”, ovvero gli antenati e il legame indissolubile con l’ambiente naturale, specificamente il paesaggio norvegese. Un elemento ideologico peculiare e distintivo nella narrativa di Vikernes è l’ossessiva ammirazione per l’Uomo di Neanderthal. Questa figura preistorica, che lui associa direttamente all’identità culturale europea, costituisce un tema ricorrente e significativo all’interno di “ForeBears”, fungendo da ponte concettuale tra il passato ancestrale e l’identità contemporanea desiderata. Lo stile adottato da Vikernes è volutamente amatoriale, marcando una netta distanza dalla lucidità e dalla produzione patinata tipica di opere come“Lords of Chaos”. Girato in digitale, il documentario assume un’impronta quasi etnografica, concentrandosi con attenzione sui dettagli delle foreste, dei fiumi e sulla semplicità degli atti quotidiani della vita rurale. Questa scelta estetica non è casuale: essa rafforza e incarna il messaggio di fondo di Vikernes, palesando un forte anti-commercialismo e un netto rifiuto delle logiche industriali e di intrattenimento del mainstream. L’album di Burzum “Sôl austan, Mâni vestan”, pubblicato nello stesso anno, funge da colonna sonora del film.
Origini e Identità, dall’Hard Rock al Visual Cinematico
Il legame tra il Metal e il cinema affonda le radici nella fine degli anni ’60, quando band seminali come Led Zeppelin e Black Sabbath definirono l’Hard Rock e l’Heavy Metal attraverso il volume altissimo, i riff complessi e una marcata attrazione per il mistico e il gotico. Il cinema, sempre alla ricerca di simboli potenti, intercettò subito questo immaginario visivo. L’estetica Metal, di cui abbiamo già parlato QUI, fatta di pelle, borchie, catene, patch e capelli lunghi, divenne immediatamente la divisa cinematografica per rappresentare il ribelle, l’emarginato e l’anticonformista, iconografia spesso usata per dare spessore ai personaggi secondari o ai freak in commedie e drammi giovanili. Non solo estetica: già all’inizio degli anni ’70, il Rock Progressivo e l’Hard Rock venivano impiegati per costruire atmosfere fantascientifiche o distopiche, e l’Heavy Metal ha ereditato questa capacità di evocare mondi fantastici o infernali, rendendolo la scelta sonora ideale per i generi horror e fantasy.
Infine, l’Hard Rock fornì il materiale perfetto anche per la satira: il finto documentario “This Is Spinal Tap” (1984) di Rob Reiner immortalò i cliché e la comicità involontaria del circo rock, creando un archetipo di band rock esagerata che continua a influenzare la commedia. Il film è strutturato come un finto documentario diretto da Marty DiBergi (Rob Reiner), che segue la band fittizia britannica Spinal Tap (inizialmente un gruppo folk, poi psichedelico, e infine heavy metal) durante un disastroso tour negli Stati Uniti per promuovere il loro nuovo album, “Smell the Glove”. Il film satireggia in modo brillante tutti i cliché e le assurdità del mondo del rock, tra cui ego smisurati, le rivalità e le incomprensioni tra il duo centrale, David St. Hubbins e Nigel Tufnel. Concerti cancellati all’ultimo minuto, setlist sbagliate e difficoltà a trovare il palco. Richieste assurde nel backstage, scenografie ridicole, come il famoso dolmen in miniatura e, l’ossessione per il volume. Una gag ricorrente e centrale è il fatto che tutti i batteristi precedenti della band sono morti in circostanze bizzarre e stupide. Se non l’avete visto, recuperatelo subito.
È seguito poi il sequel “Spinal Tap II: The End Continues” nel 2025 sempre conRob Reineralla regia e, sempre con i membri originali della finta band e i personaggi chiave del primo film, riprendendo le disavventure della band in un puro stile mockumentary. Dopo circa quindici anni di pausa, gli Spinal Tap sono costretti a riunirsi per suonare un unico e, apparentemente, ultimo concerto. Questa reunion non è volontaria, ma è dovuta a un vecchio contratto che i membri della band devono onorare, un accordo fatto firmare dal loro defunto ex manager Ian Faith; sarà sua figlia, Hope Faith, a far valere il vincolo. A documentare questo atteso e disastroso ritorno c’è nuovamente il regista Marty DiBergi, che, dopo una serie di insuccessi a Hollywood, vede in questa inaspettata reunion la perfetta opportunità per rilanciare la sua carriera con un nuovo documentario. Il film è arricchito dalla partecipazione di vere e proprie leggende della musica che faranno dei cameo, tra cui Paul McCartney, Elton John, Questlove dei The Roots, e la coppia country formata da Garth Brooks e Trisha Yearwood.

Anche “Sound of Metal” (2019), pur non essendo un film Metal in senso stretto, sfrutta il contesto di un batterista Metal e Noise per esplorare temi universali di identità e perdita. Infine, il Metal è celebrato apertamente in commedie musicali come “Tenacious D e il Plettro del Destino” (2006), in cui nuovamente troviamo Joe Black, che esaltano la mitologia e la gioia del riff e della potenza del Rock.
L’Associazione con l’Horror e la Morale Distorta.
Il genere horror ha sfruttato abilmente la reputazione di musica del diavolo che ha circondato il Metal negli anni ’80, rendendo il Metal l’oggetto stesso del terrore. I franchise horror più longevi hanno abbracciato questa estetica: l’apparizione di Alice Cooper in “Nightmare 6 – La fine” (Freddy’s Dead: The Final Nightmare, 1991) come ‘immagine carismatica e spesso demonizzata dei musicisti per rafforzare la mitologia del Male cinematografico.Il buon Alice appare in altri horror, “Il signore del male”, “Monster dog”, “Horror in the Attic”, “Suck” insieme ad Iggy Pop, e, “Dark Shadows” di Tim Burton.
Altri artisti, come Chester Bennington dei Linkin Park in “Saw 3D” (2010), hanno prestato la loro presenza per ruoli shock, consolidando la percezione del musicista Metal come figura intrinsecamente legata all’eccesso e al gore. Dave Mustain lo troviamo in “Il cavaliere del male” inseguito da un demone noto come il Collezionista. Bruce Dickinson è stato scelto per il film intitolato “Bjorn of the Dead”, pellicola è incentrata su una tribute band degli ABBA che si ritrova intrappolata in un nightclub proprio all’inizio dell’apocalisse. In “Chemical Wedding” (2008) non solo è stato coinvolto nella sceneggiatura, con Julian Doyle, ma appare in un cameo in questa pellicola horror/fantascientifica incentrata sullo spirito di Aleister Crowley che viene reincarnato. Anche Lemmy Kilmister è stato coinvolto nel mondo del cinema nel film “Hardware” in cui appare in cameo interpretando un tassista. Dee Snider invece lo troviamo come scrittore e interprete del ruolo principale del serial killer sadico, Captain Howdy nel film “Strangeland” (1998). Marilyn Manson in “Phantasmagoria: The Visions of Lewis Carroll” e in “Doppelganger” (2003). In “Wrong Turn 2: Dead End” (2007) appare Henry Rollins, Corey Taylor in “Fear Clinic” (2014), Dani Filth è apparso nel film horror “Cradle of Fear” (2001), film splatter indipendente legato alla band.
Registi d’Impronta Metal
Rob Zombie è la figura di riferimento quando si parla di Metal e cinema. Frontman della band White Zombie e successivamente solista, Zombie ha trasposto la sua estetica Industrial Metal e horror-gotica direttamente sul grande schermo. I suoi film, come “La Casa dei 1000 Corpi” (House of 1000 Corpses) e “La Seconda Venuta del Diavolo” (The Devil’s Rejects), “Le streghe di Salem”, “The Zombie Horror Picture Show”, “3 from Hell”sono intrisi di un’iconografia sleazy, di violenza cruda e di un’ossessione per i freak e gli outlaw, un immaginario che deriva direttamente dal suo universo musicale. I suoi remake di “Halloween” hanno applicato questa lente distorta e brutale a un franchise classico. La sua opera è una fusione totale tra il Metal (con frequenti omaggi sonori e visivi) e l’horror grindhouse. Decisamente più leggero il suo reboot di “The Munsters”.
James Gunn, noto per aver diretto i film di “Guardiani della Galassia” e “The Suicide Squad”, pur concentrandosi su colonne sonore più orientate al Classic Rock e al Pop degli anni ’70 e ’80, incarna lo spirito anarchico e l’eccesso tipico dell’Hard Rock. L’atteggiamento ribelle dei suoi personaggi, il montaggio frenetico delle scene d’azione e l’uso di brani iconici per definire il ritmo emotivo, sono tutti elementi che risuonano con l’energia esagerata e larger-than-life del Metal. Sebbene non puramente Metal, il suo cinema è Hard Rock nel cuore, come dimostrano le influenze di band come i Guns N’ Roses in film come “Thor: Love and Thunder” che ha co-sceneggiato.
Altri registi mostrano un legame tematico o estetico con il Metal, anche se non esplicito:
Zack Snyder ha spesso utilizzato un’estetica visiva pesante e rallentata, che ricorda la grandezza epica e gotica delle copertine degli album Metal, come si vede in film come “300” e “Sucker Punch”.
George Miller, pur essendo noto per “Mad Max”, ha inserito l’Hard Rock e il Metal come elementi di distopia e anarchia nel suo immaginario post-apocalittico.
Charles Martin Smith, pur non essendo un regista di genere, ha diretto “Morte a 33 Giri”, dimostrando una volontà di mettere al centro della sua narrativa la cultura Hard Rock dell’epoca.
Questi registi, in modi diversi, hanno riconosciuto nell’Heavy Metal e nell’Hard Rock non solo un genere musicale, ma un potente vocabolario cinematografico fatto di energia grezza, teatralità, ribellione e grandezza epica.
Le Audizioni dei Nirvana per “The Crow”
Un retroscena toccante riguarda il film “Il Corvo” (1994). Il regista Alex Proyas e il produttore di film d’azione Joel Silver avevano originariamente pensato a Kurt Cobain dei Nirvana per il ruolo del protagonista, Eric Draven, a causa della sua profonda affinità con l’estetica gotica e l’angoscia del personaggio. Sebbene Cobain non abbia mai partecipato, la colonna sonora del film divenne un’iconica fusione di Rock alternativo e Metal, con brani di Nine Inch Nails, Pantera, e The Cure, cementando il film come un’espressione del grunge e del Metal di inizio anni ’90.
Questi retroscena rivelano che la musica Rock e Metal non ha solo fornito la colonna sonora, ma ha influenzato la trama, causato problemi legali, e agito come un vero e proprio specchio dei conflitti culturali e delle tendenze estetiche di ogni epoca.
I B Movies e quelli di serie Z
“Kiss Meets the Phantom of the Park” (1978) è un film per la televisione prodotto da Hanna-Barbera che, pur non essendo tecnicamente Serie Z, raggiunge vette di kitsch e camp che lo rendono un cult imperdibile. Realizzato all’apice del loro successo e della loro iconografia mascherata, il film è essenzialmente un live action esteso che celebra il merchandising dei Kiss. La trama è volutamente assurda: la band, con gli iconici costumi, devono usare i loro superpoteri ispirati ai fumetti Marvel per combattere robot malvagi e doppelgänger in un parco a tema. Nonostante la produzione a basso costo e la trama sgangherata, che portò in seguito la band a esprimere imbarazzo, “Kiss Meets the Phantom of the Park” è un’irrinunciabile testimonianza della ridicola grandezza dell’Hard Rock degli anni ’70.
Il film horror svedese del 1985, “Blood Tracks” (Gelo Rosso Sangue), fonde il Glam Metal con il brivido montano. La trama segue gli Easy Action, una band sleaze glam realmente esistita, che si reca sulle montagne innevate per registrare il video della loro nuova canzone. Tuttavia, l’intento artistico si scontra con una serie di pericoli, tra cui una valanga e l’incontro con spaventose presenze. Gli Easy Action, formatisi in Svezia nel 1983, sono noti per aver lanciato le carriere di musicisti che in seguito militarono in gruppi di grande successo: il frontman Zinny J. Zan passò ai Kingpin, poi divenuti Shotgun Messiah, mentre il chitarrista Kee Marcello ottenne fama internazionale con gli Europe.
l film “Black Roses” (1988) è un classico esempio del sottogenere “demoni in giacca di pelle”, che sfrutta il panico morale degli anni ’80 legato all’Heavy Metal. La trama ruota attorno a una band Heavy Metal i cui membri sono in realtà demoni, che intraprendono un tour in una tranquilla piccola città. La loro musica, carica di poteri occulti, agisce come un contagio sonoro, trasformando progressivamente gli adolescenti locali in creature assassine, incanalando il timore dell’epoca che il Metal fosse una forza corruttrice.
“Hard Rock Zombies” (1985) è una delirante e sfacciata B-movie che incarna perfettamente lo spirito eccessivo e low-budget dell’horror-comedy anni ’80 a tema musicale. La premessa è già tutta nel titolo: una band viene brutalmente uccisa da un gruppo di nazisti e, in un classico colpo di scena trash, i musicisti ritornano dall’oltretomba come zombie rockettari per attuare la loro vendetta. Il film unisce in modo grottesco e spensierato i cliché del genere zombi con l’ossessione dell’epoca per i rocker come figure diaboliche e freak, il tutto condito da dialoghi assurdi e scene di violenza volutamente esagerate. È pura, inarrestabile follia di Serie Z che celebra l’assurdità.
“Shock ‘Em Dead” (1990) è un horror a basso budget che cattura perfettamente il cliché del patto faustiano tipico del Metal. La trama vede un nerd timido, desideroso di successo come rock star, stipulare un accordo con il diavolo. Ottiene immediatamente un talento eccezionale e un’estetica irresistibile, grazie anche all’interpretazione del musicista e commentatore di arti marziali Stephen Quadros, che usa non solo per raggiungere la fama, ma anche per sedurre e poi uccidere le sue vittime, spesso con metodi ispirati al genere gore. Il film, uscito alla fine dell’era Glam, è una parabola sanguinosa e ironica sul costo della fama e sulla presunta seduzione demoniaca insita nella musica Heavy Metal.
“Airheads – Testa di Metallo” (Airheads) film del 1984 segue le disavventure dei Loners, una band Heavy Metal sgangherata e appassionata. I tre membri, Chazz (Brendan Fraser), Rex (Steve Buscemi) e Pip (Adam Sandler), sono stanchi di non essere ascoltati. Decidono di irrompere in una stazione radio locale, la KPPX, armati di pistole ad acqua che credono siano vere, creando grande confusione, e prendono in ostaggio il personale, inclusi il burbero direttore e il DJ, per costringerli a trasmettere la loro demo. L’incidente si trasforma rapidamente in un circo mediatico, con la polizia, i fan e l’FBI che circondano l’edificio.
“Paganini Horror” (1989) è una gemma dell’horror italiano di Serie B che incarna perfettamente l’estetica esoterica e trash della fine degli anni ’80. Diretto dal maestro cult Luigi Cozzi, storico collaboratore di Dario Argento, il film mescola occultismo e Hard Rock in modo irresistibile.La trama vede una band rock femminile entrare in possesso di un misterioso spartito musicale. Questo non è altro che la chiave per evocare lo spirito demoniaco del leggendario violinista Niccolò Paganini. Cozzi sfrutta la mitologia popolare che circonda il celebre compositore, spesso ritenuto in combutta col diavolo, per creare un B-movie frenetico che fonde l’Heavy Metal con il Giallo di fine decennio, risultando in un’opera decisamente vintage e affascinante per gli amanti del cinema cult italiano.
“Slaughterhouse Rock” (1987) è un horror a basso budget che incarna perfettamente l’estetica slasher degli anni ’80, legando i tipici fantasmi vendicativi alla cultura Rock. La trama vede il protagonista perseguitato dallo spirito tormentato di un ex rocker, il cui fantasma infesta un mattatoio. Sebbene non sia tra i titoli più famosi del filone Metal-horror, vanta una colonna sonora ricca di Hard Rock e Metal, essenziale per definire l’atmosfera. Inoltre, il film è notevole per la presenza nel cast della modella e cantante pop Toni Basil (famosa per la hit “Mickey”), una scelta insolita che contribuisce al fascino cult di questa pellicola di genere.
“Death Rider in the House of Vampires” (2021) è l’ultima incursione nel cinema da parte dell’icona Horror-Punk e Metal Glenn Danzig, frontman storico di Misfits e Danzig. Concepito come un progetto low-budget e intenzionalmente campy, il film è un omaggio visivamente pulp e a tratti grottesco che fonde l’estetica del classico Spaghetti Western con l’Horror gotico. Il risultato è una pellicola con un’estetica Rock/Metal fortissima e marcatamente personale, che celebra la cultura B-movie con lo stile eccentrico e l’amore per il dark tipici della visione di Danzig. È un pezzo di cinema di culto, destinato principalmente ai fan della sua musica e del cinema trash d’autore.
“The Devil’s Candy” (2015) diretto da Sean Byrne si distingue nel panorama dell’horror contemporaneo per il suo stile viscerale e la sua forte identità visiva, dominata da accenti di rosso acceso. Lontano dai cliché del found footage, Byrne costruisce una narrazione serrata e ad alta tensione.
A differenza di molti film in cui il Rock è accessorio, qui il Metal è centrale: l’entità cerca attivamente di possedere Jesse, sfruttando il suo talento artistico e la sua passione per la musica heavy come canale per manifestarsi e compiere atti malvagi. Il Metal, con la sua energia grezza e i suoi temi oscuri, diventa letteralmente la tela su cui il Male dipinge e la sinfonia che accompagna il delirio. “The Devil’s Candy” è stato acclamato dalla critica di genere per la sua capacità di fondere l’iconografia Heavy Metal, spesso demonizzata dalla cultura mainstream, con il classico terrore della casa stregata. Il film offre un’esperienza claustrofobica, supportata da una colonna sonora sapientemente scelta che rafforza la connessione tra la musica estrema e la narrazione soprannaturale.
“Terror on Tour” (1980) è uno slasher molto crudo e a bassissimo costo che segue una glam rock band chiamata The Clowns (notare il look alla Kiss). Un maniaco vestito da membro della band inizia a uccidere le groupie e lo staff durante il loro tour, sfruttando il caos del backstage.
“Ghoulies II” (1987), un sequel folle dove le creature Ghoulies si intrufolano in un carnival itinerante. Il film ha forti richiami all’estetica Heavy Metal e vede la partecipazione della band W.A.S.P.
“Rock ‘n’ Roll Nightmare” (1987) film in cui la band heavy metal canadese Tritonz si reca in un’isolata fattoria nella natura selvaggia per registrare il loro nuovo album. La fattoria, tuttavia, si rivela essere un portale per l’Inferno, e forze demoniache iniziano a uccidere e possedere i membri della band e le loro fidanzate, con effetti speciali mostruosi in gomma esilaranti e a basso budget. Non spolero il finale ma ci sarà un duello tra Thor, con tanto di perizoma borchiato, ed il Diavolo.
“Hard Rock Nightmare” 1988, in questo slasher, un gruppo di studenti universitari si dirige a un concerto Hard Rock, ma si ferma in una foresta infestata, finendo per essere braccato da un misterioso assassino. È un tipico teen-horror con una colonna sonora energica.
“Get Out Alive” (1984), diretto da Andrew J. Kuehn è un film estremamente oscuro e difficile da trovare. La storia segue una giovane donna che si infiltra in una band Heavy Metal satanica per vendicarsi della morte della sorella. È un primo esempio di film che sfrutta i cliché del Metal legato all’occulto.
“Satan’s Blade” (1985) del regista L. Scott Castillo Jr. è uno slasher montano in cui le vittime sono inseguite da un assassino armato. Sebbene non sia strettamente a tema band, la colonna sonora è fortemente improntata sull’Heavy Metal aggressivo, tipico del soundscape dell’epoca.

Il Metal visivo in Giappone
Film veramente assurdo è “Detroit Metal City” (2008), pellicola giapponese, la cui storia, nata come manga, scritta e illustrata da Kiminori Wakasugi tra il 2005 e il 2010, ha debuttato sul grande schermo con e, parallelamente, l’introduzione nel mercato home video di una serie animata composta da dodici episodi in formato Original Anime Video.
Soichi Negishi, il protagonista, è l’archetipo dell’intellettuale nerd sfigato che nutre una profonda passione per il pop svedese. il suo sogno è quello di comporre ed eseguire brani pop caratterizzati da una spiccata dolcezza melodica. Arrivato a Tokyo dalla campagna e, nonostante questa sua inclinazione, Negishi si trova a rivestire il ruolo di frontman e chitarrista della death metal band Detroit Metal City incarnando l’alter ego scenico del demoniaco Johannes Krauser II, generando un marcato e costante contrasto tra la sua autentica personalità riservata e l’identità aggressiva e teatrale della sua controparte metal.
“Inu-Oh” (2021) diretto dal visionario regista Masaaki Yuasa (noto per “Devilman Crybaby” e “The Tatami Galaxy“. è stato definito come un’opera rock storica che fonde l’antico Giappone con sonorità e uno spirito estremamente contemporanei. l film è un adattamento del romanzo “Tales of the Heike: Inu-Oh” di Hideo Furukawa ed è ambientato nel Giappone del XIV secolo, durante il periodo Muromachi, un’epoca cruciale per lo sviluppo del teatro Nō. La storia è incentrata su un’amicizia destinata a trascendere il tempo, tra due outsider emarginati dalla società, Inu-Oh, un danzatore nato con un corpo deforme a causa di una maledizione e costretto a coprirsi il viso con una maschera, e Tomona un musicista biwa (liuto giapponese) cieco, la cui cecità è anch’essa legata a un evento tragico e sovrannaturale. I due formano un sodalizio artistico. Tomona compone musiche che fondono strumenti tradizionali con le sonorità del rock, del glam metal e del punk, mentre Inu-Oh crea coreografie inedite e travolgenti. Attraverso le loro performance, raccontano le storie degli spiriti dei guerrieri Heike perduti, le cui gesta rischiano di essere dimenticate o distorte dalla storia ufficiale. Il film è celebre per il suo approccio audace e anacronistico, prima di tutto per fusione di generi,Yuasa immagina che il teatro Sarugaku, precursore del Nō e la musica biwa si trasformino, grazie al genio dei protagonisti, in qualcosa che assomiglia a un concerto rock da stadio moderno, con effetti speciali, costumi bizzarri e un’energia frenetica. In secondo luogo per la colonna sonora, composta da Otomo Yoshihide, è cruciale, mescolando la tradizione con le sonorità contemporanee. Il tero motivo è lo stile visivo cinetico, surreale, non convenzionale, con animazioni che enfatizzano le deformità di Inu-Oh e l’intensità delle esibizioni, trasformando il dolore e la rabbia in una forma di liberazione artistica. “Inu-Oh” è stato candidato ai Golden Globe come miglior film d’animazione, consolidando ulteriormente la reputazione di Masaaki Yuasa come uno dei registi più audaci del panorama animato contemporaneo.

“Devilman Crybaby” (2018) già menionato tra i lavori di Masaaki Yuasa, pur non essendo esplicitamente un anime metal, l’intensità della violenza e il tono nichilista sono spesso accompagnati da una colonna sonora heavy, ritmica e aggressiva, che condivide l’estetica emotiva del metal estremo.
“Aggretsuko” (2018) ha come protagonista Retsuko, un panda rosso che lavora in un ufficio a Tokyo. Timida e diligente di giorno, Retsuko sfoga la frustrazione accumulata a causa del lavoro e dei superiori cantando death metal a squarciagola in sessioni di karaoke. L’anime utilizza l’estetica estrema del death metal in un contesto inaspettatamente slice of life e comico per commentare le difficoltà della vita d’ufficio giapponese.
“Jojo’s Bizarre Adventure” (1993) sebbene non sia un anime musicale, l’intera serie è un omaggio vastissimo alla musica rock e metal occidentale. Molti personaggi e i loro poteri, gli Stand, prendono il nome da band, album o canzoni celebri come Iron Maiden, Black Sabbath, Metallica e AC/DC.
“Black Heaven” (1999) parla di un ex chitarrista heavy metal, Oji Tanaka, ora un noioso impiegato sposato, viene inaspettatamente reclutato da due misteriose donne per suonare la sua vecchia chitarra Gibson Flying V, scoprendo che la sua musica è l’unica arma in grado di salvare la Terra da un’invasione aliena. L’anime è un tributo nostalgico alla cultura hard rock degli anni ’80.
“BECK: Mongolian Chop Squad” (2004) segue le vicende di Yukio “Koyuki” Tanaka, un quattordicenne apatico e insicuro che conduce una vita anonima. La sua esistenza cambia radicalmente quando salva un cane di nome Beck, che appartiene a Ryusuke Minami, un chitarrista prodigio e ribelle tornato dagli Stati Uniti. È un ritratto onesto e anti-glamour delle dinamiche, delle difficoltà e della pura gioia di creare musica rock. Oltre alla serie animata, è disponibile una versione cinematografica che non risulta del medesimo livello di realizzazione o impatto qualitativo dell’originale animato.
In definitiva, il cinema ha ammesso fin dall’inizio che nel Metal c’è molto di più di un semplice rumore di sottofondo. Che sia utilizzato come strumento di scherno involontario, il livello 11 di “Spinal Tap” è pura poesia, come la colonna sonora perfetta per una ribellione anarchica e, diciamocelo, piuttosto imbranata, come in “Airheads”, o come l’arma segreta per scatenare il terrore e l’occulto, il ruggito del Metal rimane un elemento narrativo potente e terribilmente versatile anche negli imbarazanti B movies, nel mondo dell’animazione giapponese, dove è spesso la base per personaggi fuori dagli schemi.
E mentre i riflettori si concentrano sulle reunion agrodolci come la band di “Still Crazy” in un film nostalgico, la sua presenza nelle produzioni occidentali, il Metal ruggisce anche nel mondo dell’animazione giapponese, dove è spesso la base per personaggi fuori dagli schemi. Persino l’Hair Metal, con le sue chiome cotonatissime e i suoi riff epici, offre al cinema l’eccesso visivo e l’identità sfacciata di chi ha capito che la musica è tanto spettacolo quanto suono.” Il Metal, con le sue distorsioni, non si limita a dare forma e volume alle visioni più estreme; agisce piuttosto da metafora del caos sociale e dell’identità ribelle, di solito vestita male, o eccentricamente glamour, ma sempre rumorosa e noi, oltre a esserne fieri sostenitori, assistiamo alla sua consacrazione come colonna sonora in numerosi film sia cult che mainstream.
Valeria Campagnale