Recensione libro: Geddy Lee, My Effin’ Life, l’autobiografia del bassista dei Rush

MY EFFIN’ LIFE
L’autobiografia del bassista dei RUSH
di Geddy Lee
554 pagine, con 32 pagine di foto a colori
Formato: 16×23
ISBN: 978-88-94859-90-4
30 €
Ritengo che i Rush siano unici.
Non mi sovviene un’altra band di caratura capace di risultare così divisiva in ambito duro.
Si badi bene: divisiva in senso positivo, però.
Fra i metallaroni duri e puri e incontaminati esistono schiere di loro cultori. I Rush: l’unica band fuori dal seminato capace di infrangere le inscalfibili regole e gli ancor più rigidi steccati mentali. E anche l’unica che se lo può permettere. Perché la loro è magia tradotta in musica. Magia hard rock, per semplificare, ammantata di Prog.
Per altri, invece, i Rush permangono una compagine sì degna di stima che però dopo la fruizione di due pezzi porta allo sbadiglio compulsivo.
Terza opzione: difficile trovare dei veri denigratori seriali tout court che si riferiscano a loro.
Affascinante, quindi, imbattersi nello scritto vergato Geddy Lee, bassista e fondatore della band canadese che all’interno della sua autobiografia ufficiale pubblicata nel 2023 in lingua inglese vuota definitivamente il sacco su sé stesso, i Rush, la famiglia e in generale la vita. Come spesso accade in ambito letterario nazionale Tsunami Edizioni si è procurata i diritti per tradurre l’opera originaria in italiano, nella fattispecie grazie ai servigi di Stefania Sarre et voilà, ecco confezionato My Effin’ Life, l’autobiografia del bassista dei Rush, un bel bestione di 554 pagine più 32 di foto a colori. Mitica quella dell’hard rocker anni Settanta lungocrinito inquadrato di schiena con il giubbotto sdrucito di jeans carico di toppe dei Rush, poi finita dritta dritta in copertina di un numero di Sounds.
Lee è nato nel 1953 e immagino abbia semplicemente pensato: adesso o mai più! Si è quindi messo di buzzo buono e ha effettuato una TAC della sua vita riversandola dentro le pagine di un libro adottando uno stile ironico e scherzoso senza per questo lasciarne passare una che sia una! A partire dalla sua infanzia, tutto sommato abbastanza felice ma con molte ferite difficilmente rimarginabili: Geddy fu bullizzato ed emarginato, imparò a cavarsela da solo e dovette suo malgrado convivere con i fantasmi mai sopiti delle brutalità commesse dai nazisti. La sua famiglia, ebrea, durante il secondo conflitto mondiale subì le angherie della gente agli ordini di Hitler e il bassista dei Rush non ne lesina i particolari: i primi capitoli sono pregni degli agghiaccianti fatti legati a quegli anni, compresi illustri decessi. Un ripasso di dura e cruda storia che non fa mai male e che è capace di riservare inattese sorprese, come svariate situazioni in cui è emerso il comportamento disdicevole – eufemismo – da parte di molte persone di nazionalità canadese e polacca.
Poi è la volta della musica e dei Rush, ovviamente, fra gli inizi punteggiati da inevitabili scazzi, voltagabbana, delusioni che nel giro di breve si sarebbero trasformate in grandissime soddisfazioni. Lee pur di proseguire il suo sogno decide di abbandonare gli studi superiori e mettere anima e corpo in quello che più gli piace. Diviene un bassista sopraffino, fonte di ispirazione di moltitudini di colleghi, cantante, compositore e polistrumentista. Nel 2013 entra di diritto nella Rock and Roll Hall of Fame.
Vengono passati al microscopio i rapporti con gli altri due Rush, il chitarrista Alex Lifeson e il compianto batterista Neil Peart, mancato il 7 gennaio del 2020, subentrato all’originario John Rutsey, a rappresentare un unicum nel panorama hard rock progressivo. Il gruppo, infatti, raggiungerà traguardi incredibili in termini di consenso e vendite: un numero esagerato di dischi d’oro e platino, che pongono i Rush appena dietro a complessi enormi quali Beatles e Rolling Stones, concerti in ogni angolo del globo e ben sette nomination ai Grammy Award.
Nel mezzo i vari dischi, le etichette, i manager, i molti lutti, le frizioni con i giornalisti, l’approccio dei fan, il NO definitivo di Peart al ritorno in Giappone dopo un episodio increscioso, l’immancabile aneddotica on the road, le droghe, le riflessioni a freddo sui numerosi avvenimenti e le inevitabili frecciate, alla bisogna, senza mai esagerare, però. Molte le altre band citate: New York Dolls, ZZ Top, Uriah Heep, Blue Oyster Cult, Thin Lizzy, UFO, la nostra PFM ma soprattutto Kiss.
My Effin’ Life è lo spaccato di un’esistenza legata alle sette note, tratteggiato con onestà da una persona fondamentalmente per bene che ha il coraggio di mettersi a nudo, rivelando le proprie debolezze, che fanno il paio con i grandissimi traguardi raggiunti all’interno di una carriera invidiabile, comprensiva di qualche evitabilissimo scivolone, come con correttezza riportato ad esempio a pagina 382 del libro, nel momento in cui narra un fatto avvenuto nel 1988 a Stoccarda:
Quando uscimmo dalla venue, vidi un gruppo di fan accalcati all’uscita che mostravano dei cartelli con su scritto “RUSH FAN CLUB OF ITALY”. Anche loro videro me e cercarono di sbracciarsi per chiedermi degli autografi, ma istintivamente frenai, feci inversione e trovai una via di fuga. Ma poi, mentre diventavano sempre più piccoli nel mio specchietto retrovisore, venni invaso da un enorme di senso di colpa: “Che cazzo di problema ho?”. C’erano una manciata di fan appassionati che, sapendo che i Rush non avrebbero suonato nel loro Paese, avevano viaggiato fin lì per vederci ovunque potessero. Tutto ciò che chiedevano in cambio erano pochi minuti del mio tempo, eppure io ero scappato via come un coniglio terrorizzato. Che cosa mi minacciava? Finii per chiedermi: “E’ questa la persona che sono diventato?”. Non mi piacque per niente come avevo gestito la cosa. Odiavo l’energia negativa che avevo creato. E, una volta arrivati all’hotel, giurai a me stesso che mi sarei dato una cazzo di calmata e che avrei trasformato il negativo in positivo per chiunque avesse a che fare con me. Da quel momento in poi, penso di aver tenuto fede alla promessa
Stefano “Steven Rich” Ricetti