Consigli Non Richiesti di Giancarlo Trombetti (#12 – Il caso Lulu)
IL CASO LULU
Nel 1973 eravamo all’alba delle domeniche di austerity e ricordo che giravo su di una vespina 50 in condizioni pietose in attesa di tempi migliori. Avevo una fidanzatina cui tenevo moltissimo e tutti i denari che risparmiavo dalle uscite con lei venivano, ovviamente, destinate all’acquisto dell’adorato vinile. Ricordo che quello fu l’anno in cui uscirono a pochi giorni di distanza “Houses of the Holy” degli Zeppelin e “Dark Side of the moon” dei Floyd che crearono problemi nella gestione del limitato budget a mia disposizione. Il 1973 fu anche l’anno della fine ufficiale della guerra del Vietnam, dell’inaugurazione di quelle Torri Gemelle di cui conosciamo la fine, del rogo di Primavalle e di una serie di omicidi voluti e cercati a destra così come a sinistra…o al centro?, del Watergate e della nascita del “compromesso storico”. Ricordo molto di quell’anno perché incominciai a interessarmi di quello che accadeva al di fuori dal mio mondo di diciottenne e ricordo che non tutto quello che capivo mi piaceva; ricordo che finivo con l’accettare molte cose ma non sempre le capivo. Non capivo come si potesse decidere di ammazzare un politico, Mariano Rumor, ma per farlo si prendesse un rischio così alto da portare all’uccisione di quattro poveri cristi, non ottenendo neppure di ferire il politico. Non capivo come si potesse pensare che le bombe potessero cambiare il corso della storia o come molti pensassero che il cinema italiano non sarebbe sopravvissuto alla morte di Anna Magnani. E mentre altri si disperavano per la scomparsa di Bruce Lee i cui film andavano di gran moda, io ricordo che mi ero sentito molto più colpito per la morte di Pasolini e Saarinen e per quella di Gram Parsons.
Ma la memoria più vivida restano le mie scorribande sul vespino, con il mio giubbotto eskimo verde ed un berretto di lana bianconera che ancora conservo in un cassetto; scorribande libere di teen-ager alle porte della patente B e che si prendeva la sua vendetta sulle automobili bloccate dalla crisi che attanagliava l’Italia alle prese con la prima, vera crisi petrolifera e l’aumento sconsiderato del prezzo del petrolio, passato dalle cento lire o poco più alle oltre 180 che facevano tremare i polsi degli automobilisti. Sì, ricordo che ci sentivamo come nel dopoguerra o quasi, in quel 1973, con il crollo delle vendite di auto, di alimentari e dei beni cosiddetti voluttuari addirittura dell’ottanta per cento. E ricordo che frequentavo spesso Giovanni, uno dei miei sodali dell’epoca, l’uomo con cui scambiarsi i vinili non era sofferenza ma risparmio e piacere tanto era preciso e attento nel maneggiarli.
Lou Reed
Mi ricordo che un giorno mi portò in casa un disco di Lou Reed, “Berlin”. A Lou non ero particolarmente affezionato ma dovevo esserlo dato che avevo apprezzato i suoi Velvet Underground anche se molto di quello che avevano prodotto, tutto sommato, avrei anche potuto suonarlo io che non avevo mai preso in mano altro che il braccino del mio giradischi. Ma Lou era stato preso in simpatia da Bowie e il David di quegli anni era uno splendido esempio di compositore e di creativo, uno da tenere in considerazione anche quando sbagliava un disco; così finimmo col sentirci coinvolti persino da quel “Transformer” di cui non avevamo capito, nella nostra ingenuità di teen-agers, il vero messaggio. E d’altra parte pure la RCA italiana aveva deciso di renderci la vita difficile nella comprensione dei contenuti mettendo sul retro di copertina una bella e grossa banda color oro con su scritto “produced by David Bowie” a tagliare ad altezza di inguine la foto di quel coatto e della signorina al suo fianco. Ricordo che i primi dubbi mi vennero quando mi capitarono per le mani i testi di “Walk on the wild side” – il formidabile singolo sui cui proventi Lou ha campato una vita – e la copertina originale.
Per quel che riguardava i testi non dovete dimenticare che il web, ai tempi, non c’era e che ottenere accesso ai testi inglesi era spesso difficile, se non impossibile. Così quando mi resi conto che la frase “…but she never lost her head even when she was giving good head…” non parlava esattamente di colpi di testa e che tutta la canzone era un inno alla omosessualità, quando girai la copertina e vidi per la prima volta l’aggeggio notevole (non per i miei gusti ma ugualmente notevole) che sfoggiava il ragazzo e dubitai della reale femminilità della signorina, decisi di approfondire il resto dei contenuti. Reed si dimostrava il cantore di storie di strada, di omosessualità, di disagio, di droga pesante e violenza. In sostanza quello che avrebbe continuato a fare nei quaranta anni successivi. Ma “Transformer” – che a quel punto capii non significava “trasformista” ! – era un decoroso album e qua e là c’erano spunti interessanti di quel rock stradaiolo seppur non cattivo e così ci fidammo anche del successivo “Berlin”.
Metallica&Lou Reed
Ricordo che quando lo ascoltai la prima volta maledissi Giovanni per avermi fatto perdere quaranta preziosi minuti della mia vita. Il disco era tragicamente lento, moscio, privo di sussulti, straziante, narrato più che cantato – anche se sarebbe stato difficile dire quando mai Reed aveva cantato, in precedenza – e senza uno spunto, una nota di chitarra ad emergere. I miei gusti del 1973 ammettevano poco spazio per le vie di mezzo: o si era rock o blues, o psichedelici o country, o cantautorali o…poco altro. E lì non sentivo niente di tutto ciò. Ma il danno era fatto ed il disco comprato ed il fatto che la mia edizione originale fosse accompagnata dai testi non mi aiutava a farmi venire la voglia di approfondire. Anzi. Quando mi misi con calma a cercare di seguire quella storia, ricordo che scelsi di disintossicarmi sparacchiandomi “Larks’ tongues in aspic” nelle cuffie; un altro gran bel disco di quel 1973. Non ripresi più in mano quel 33 giri per un po’ di tempo, tanto lo odiavo. Poi, dato che oramai i soldini se ne erano andati, provai – giuro che lo feci! – per molto tempo a farmelo piacere. Senza risultati tangibili. Fu solo dopo molti anni, moltissimi, dopo decine e decine di tentativi di ogni genere, che la maturazione a un ascolto diverso (o la mia testardaggine, non l’ho mai capito) mi portarono a capire, poco alla volta, il senso intero di quei contenuti. E mi resi conto che non sarei probabilmente mai sopravvissuto ad un ascolto totale, in sequenza, ma che c’erano, però, elementi di interesse. La tragicità di alcune situazioni estreme, le orchestrazioni di fondo di Bob Ezrin, il produttore, la chitarra bellissima e sognante ma tenuta non in secondo ma in terzo o quarto piano dall’egocentrismo del Reed di quei tempi, ed un paio di canzoni che, da sole, avrebbero potuto essere la colonna sonora di certe ipotetiche dediche mai fatte ad altrettante compagne di un pezzo della mia strada.
Non potrei dire di aver mai veramente amato “Berlin”, ma di aver imparato a conviverci. Sì, conviverci e non sto utilizzando un termine eccessivo; si convive con un’emozione ricorrente, qualunque essa sia, si imparano a rispettare note, cose e persone, sapendo che in un qualunque momento della tua vita potranno attraversarti di nuovo la strada. Si impara ad accettare, al contrario, pur non condividendolo, tutto ciò che ti viene imposto: come certe dichiarazioni di politici o presidenti di calcio di turno. Si ingoia sperando che non capitino più tra le gambe. Anche se quasi sempre si tratta di speranze mal riposte.Così, quando qualche mese fa lessi per la prima volta di una collaborazione tra Lou Reed ed i Metallica pensai ad uno scherzo giornalistico: gli opposti che non si sarebbero mai potuti attrarre a mio parere. Poi, trovati su Youtube alcuni brani effettivamente eseguiti dalla “strana coppia” alla Rock and Roll Hall of Fame, cominciai a crederlo possibile.
Ricordo che quando “Lulu”, questo il nome del parto, uscì feci di tutto per non leggere nulla; per non essere in qualsiasi modo condizionato. Volevo avvicinarmi a quello che avrebbe potuto essere il disco del decennio assolutamente vergine di pensiero e giudizio. Mi organizzai con un po’ più di fatica di quando un tempo, in ere in cui il web e gli incombenti media non ci circondavano e volevi gustarti in tv il secondo tempo della “tua” partita di calcio senza conoscere il risultato, ti bastava scansare la radiolina in AM/FM e stavi tranquillo. Perché sono esistiti tempi in cui la partita di calcio andava alle diciotto su Rai Uno. E basta. Con “Lulu” è stato più difficile: persino i quotidiani, quelli che una volta “solo Sanremo” ne hanno parlato, il web è stato invaso, tutti hanno voluto dare la propria opinione, e le radio…no, le radio no. Così ho atteso che i pezzi venissero messi per intero sul sito ufficiale, poi, due respiri profondi ed ho iniziato ad ascoltare.
Credevo di essere pronto, ma evidentemente non lo ero. Conosco Reed e conosco i Metallica, ma non ne avrei mai immaginato tale il frutto dell’insano connubio. È bene dire che, a mio modestissimo parere, i quattro hanno toccato il vertice della propria ispirazione quando hanno partorito quel capolavoro eterno che resta l’album nero. Quel che è venuto in seguito è stato o tragicamente fuori tono o solo parzialmente positivo; niente di esaltante, in tutta sincerità. Reed invece ha continuato a fare metodicamente i cazzi propri. Da decenni gli viene riconosciuto uno status permanente di Mito Inattaccabile per cui ci sono orde di scribacchini pronti a dirne comunque bene, a ingoiarne qualsiasi turpitudine. Quello che Lou organizzò nel 1975, pubblicando “Metal Machine Music”, quattro facciate di una chitarra in distorsione, un unico feedback spezzato solo dalla necessità di voltar vinile, una presa di sedere sesquipedale, indimenticabile, unica che ottenne il plauso di troppi acuti commentatori, non potrò mai cancellarmelo dalla mente. Una presa di culo ricorrente, dato che nel 2008 mise insieme un fantomatico Metal Machine Music Trio con cui se ne andò in tour trovando un bel po’ di deficienti pronti a spellarsi le mani. Sia battendole che scrivendo su di una tastiera. Lo stesso osannatissimo “Song for Drella” a me è sempre parso di una noia mortale. Ma dimenticando i suoni – no, non ce la faccio a chiamarla sempre musica – i temi dei testi rimanevano gli stessi: sesso, droga, disperazione, suicidio, violenza, omosessualità, sesso, droga, suicidio, violenza, disperazione, omosessualità…Reed è per me il cantore della sfiga trascendente, folle attendersi uno sprazzo di luce in fondo al tunnel, una speranza, una storia comune, un colpo di teatro.
E difatti “Lulu” è l’ennesima prova del legame tra Reed e la Berlino più cupa e angosciante; basata sull’omonima opera teatrale di tal Benjamin Franklin Wedekind, un tipo che verso la fine dell’ottocento si era fatto notare per l’approfondimento di contenuti non proprio comuni per i tempi come la masturbazione giovanile, il sadomasochismo, il suicidio, l’aborto. Questi temi portarono lo scrittore a narrare le vicende di Lulu, un’ipotetica giovanissima femmina fatale che in qualche modo segnò persino Louise Brooks che ebbe a interpretarla e il nostro Crepax che da lei tirò fuori il personaggio di Valentina. Un personaggio, quello di Lulu o Lulù, che a più riprese trovò appassionati interpreti e adattatori teatrali e cinematografici nel corso del novecento.
E gli istinti seduttori della Lulu originale che trovano la propria fine nella caduta in povertà e la susseguente necessità di prostituirsi, con esplicite descrizioni delle violenze e dell’ambigua sessualità della ballerina, che culminano in un incontro occasionale persino con Jack lo Squartatore, sembrano fatti apposta per stimolare l’interesse del cantante newyorkese che, sempre a mio parere, non potrebbe mai affermare con sicurezza di non esserne stato in qualche modo influenzato nella stesura delle vicende dei suoi Caroline e degno marito, i personaggi della sua opera “Berlin”. Reed quindi perfettamente in sintonia con le vicende di Lulu, e con la sua voce progressivamente sempre più declamante invece che cantata. Rarissimi gli sprazzi di cantato o i brevi tentativi di andarci vicino.
E se tutto questo era in qualche modo prevedibile, la speranza era però riposta nei Metallica, nella loro personalità a sostituirsi idealmente a quello spettacolare gruppo che in pochi mesi del 1973 stravolse e dette immortalità ai classici di Reed nel “Rock and Roll Animal”. Speranza, anche in questo caso, mal riposta. Evidentemente i quattro, abbagliati dalla luce fredda di Lou, convinti di poter entrare nel Mito solo per il fatto di assecondare i suoi deliri, hanno accettato di giocare la parte del supporto, non creando, non inventando, mettendo poco o nulla di proprio o, se facendolo, probabilmente mal indirizzati dal maestro di cerimonie. Tutte ottime scuse per non dar loro troppo contro. In verità i Metallica paiono proni e subordinati all’ennesima descrizione di storie già immaginate e che comunque non giustificano il prezzo del biglietto. Che ci frega a noi se persino Pierre Boulez abbia diretto Lulu in opera sinfonica, che la Brooks sia stata psicologicamente legata per una vita al personaggio dopo aver interpretato il ruolo ne “Il vaso di Pandora” di Pabst, il risultato suona come un’improvvisazione occasionale, ha il sapore di ingredienti che non legano tra loro, appare come due elementi che si respingono loro malgrado.
Ed io – da un lato deluso per un’occasione mancata, dall’altro ben felice di aver avuto l’opportunità di ascoltarmi gratuitamente la ciofeca dal web prima di sputtanare preziosissimo contante – ho spento il computer, scegliendo un logico periodo di decantazione prima di esprimermi. In mente il tardivo apprezzamento verso alcuni momenti di “Berlin” che forse, da soli, giustificherebbero tuttora l’acquisto. Poi un secondo, un terzo tentativo e la certezza: uno schifo difficilmente si tramuterà in Principe Azzurro, nonostante qualsiasi mia buona volontà.
Così mi sono messo a cercare una frase sarcastica, un motto che esprimesse la delusione in poche parole. Ed ero lì che mettevo alla prova la mia ironia quando sono inciampato su un giudizio di Alice Cooper uno che in fatto di ironia, talvolta ha fatto scuola: “Lou Reed con i Metallica? E’ come se Iggy Pop facesse un disco con gli Abba…”. Perfetto, bravo Alice.
Peccato, perché la confezione de luxe del cd era attraente…
Giancarlo Trombetti