Heavy

Intervista Manowar (1989)

Di Stefano Ricetti - 12 Dicembre 2013 - 0:10
Intervista Manowar (1989)

Intervista a Eric Adams, cantante dei Manowar, realizzata da Giulio Ceriani e apparsa all’interno del numero 44 della rivista Metal Shock nel 1989, con i Guerrieri di New York ancora freschi dell’uscita del Loro celeberrimo album Kings of Metal, che vide la luce nel novembre del 1988.

Buona lettura.

Steven Rich

 

 

L’abito fa il musicista? Qualche volta sembrerebbe proprio così. Non pensate solo agli svenevoli ed effeminati aspetti delle innumerevoli formazioni glam; nella diversità non fanno lo stesso forse anche quei gruppi incapaci di farsi fotografare senza mostrare sul volto smorfie di dolore, senza digrignare i denti come cani arrabbiati o senza dedicare alle persone che sono dall’altra parte dell’obbiettivo l’amichevole gesto col medio teso in bella evidenza? Sorge spontaneo il sospetto che costoro, non sentendosi sicuri del valore della propria musica, siano costretti a cercare un modo particolare per farsi notare. Ma quando un gruppo, indiscutibilmente valido e geniale come i Manowar; ricerca una particolare immagine, allora viene in mente che questo non sia esclusivamente una mossa pubblicitaria. Ma a questo punto conviene forse far parlare direttamente il Frank Sinatra dell’heavy metal, “The Voice” Eric Adams: “In un certo senso anche noi badiamo all’apparenza né più né meno dei Motley Crue ma a differenza del loro, il nostro aspetto rispecchia il nostro modo d’essere. Una volta scesi dal palco smettiamo questi abiti vichinghi ma la nostra attitudine resta quella di non cedere ai compromessi. Possiamo essere amati o odiati, o credono in noi o veniamo derisi, ma non siamo mai nel mezzo. Anche a noi piace divertirci, fare i matti, nei nostri camerini c’è sempre un sacco di casino, ma per quanto riguarda la musica siamo tremendamente seri e professionali: quale altro gruppo avrebbe osato pretendere di suonare quello che suoniamo dopo aver passato due anni a cercare una casa discografica? Non abbiamo accettato compromessi con la WEA e non lo faremo in futuro”.

Come inizio intervista non c’è male…   

 

La copertina di Metal Shock numero 44 

 

Parlaci un po’ del Vostro ultimo disco, Eric.               

“Wheels of Fire” è dedicata agli ultimi cavalieri, i motociclisti. Sia io che Joey che Scott possediamo una motocicletta e spesso dobbiamo pagare delle multe salatissime per eccesso di velocità. “Kings of Metal” descrive quello che accade quando suoniamo, perché siamo i veri Re del metallo. “Heart of Steel” è l’attributo necessario per essere un fan dei Manowar; quando sembra che la sconfitta sia vicina, solo chi possiede un cuore d’acciaio può ancora alzarsi e combattere. Ne abbiamo fatta anche una versione in tedesco, intitolata “Herz Aus Stahl” perché i nostri fan laggiù si sono dimostrati davvero speciali. “Sting of the Bumblebee” non è solo una dimostrazione della maestria di Joey, ma rappresenta l’occasione per i Manowar di mostrare il loro valore anche senza di me. Joey ha sempre pensato che non esiste nulla in musica di più pesante della combinazione fra organo a canne e coro, e così è nata “The Crown and the Ring”. Già ci avevamo provato in parte col coro di “Hail to England”, registrato qui negli USA. Ora abbiamo più soldi a nostra disposizione e Joey è andato a finire a Birmingham registrando tutto dal vivo nella cattedrale di quella città. “Kingdom Come” nacque come una canzone ad una voce, ma provando ci accorgemmo che ci sarebbe stata bene qualche sovraincisione; alla fine sono risultate otto voci sovrapposte. L’introduzione acustica e il crescendo che segue rendono “Hail and Kill” molto trascinante; il suo scopo è di far cantare la gente dal vivo e ci riesce benissimo. “Warriors Prayer” continua la saga delle canzoni parlate dei Manowar. Vi ricorriamo ogni volta che vogliamo che la gente presti attenzione a quello che diciamo.

 

Manowar

 

All’inizio di “Warlord” c’era un’introduzione messa lì per ridere in cui un padre veniva scaraventato giù dalla finestra dall’amante della figlia. “The Warriors Prayer” invece esprime il vero pensiero dei Manowar riguardo la famiglia: vecchio nonno rende partecipe il nipote dei valori in cui ha sempre creduto: l’onore, la libertà, il coraggio. Chi altri avrebbe potuto metter brani come “The Warriors Prayer” e “The Crown and the Ring” sul proprio disco? Nessuno! Solo noi abbiamo il coraggio necessario per inserire brani così fuori dai canoni usuali del rock, noi siamo fuori dall’ordinario. Molti altri avrebbero paura di far ascoltare la loro voce senza la protezione delle chitarre: io no. Io canto, non urlo. La mia voce ora è al massimo, posso farci quello che voglio. “Blood of the Kings’ ci è stata suggerita dalle lettere che giungono al nostro fan club, ispirate dai titoli e dai testi delle nostre  canzoni. Non la suoniamo qui in USA ma in Europa sarà un tributo ad ogni nazione dove ci esibiremo. In tutto il disco abbiamo utilizzato le tecniche più avanzate di registrazione perché chi lo compra ha il diritto di ascoltare il miglior suono che si possa ottenere”.

C’è una canzone, “Pleasure Slave”, che non hai nominato, ma che ha già creato molte polemiche: come è nato quel testo? Non pensate che in fondo sono le donne che fanno girare il mondo?

“Ah, già, è proprio così, sono loro a condurre il gioco! “PIeasure Slave” però  non parla delle donne in generale ma solo delle “groupies”: sono loro a voler essere trattate così e noi non facciamo che accontentarle! Quando siamo in giro Joey compie gli anni diverse volte al mese e con questo pretesto facciamo molte feste, tu sai cosa intendo, vero? Comunque tutti noi amiamo e rispettiamo le donne, e ci  comportiamo come è scritto in Pleasure Slave solo con coloro che ci cercano apposta”.

Le stesse cose le ha dette Ted Nugent, se non sbaglio…

“Strano, abbiamo aperto alcuni concerti per lui qualche tempo fa ma non ci ha detto nulla di simile. Sette anni fa stava per cacciarci perché gli rubavamo il pubblico, deve averlo dimenticato… Nessuno ci vuole come gruppo di apertura… Gli unici che hanno avuto questo coraggio sono stati i Motorhead perché loro sono some noi, non guardano in faccia nessuno. Certe voci secondo le quali saremmo noi a pretendere di suonare sempre per ultimi sono tutte balle; saremmo felicissimi di avere l’occasione come quella avuta dai Metallica con Ozzy; prima eravamo più famosi di loro. Comunque quello che ci sta veramente a cuore è che i nostri fan, siano essi pochi o molti, siano sempre soddisfatti di noi”.

Come pensi che accoglieranno, dunque, il vostro nuovo chitarrista David “The Death Dealer” Shankle?

“David è perfetto per ciò che rappresentiamo. Lo incontrammo in un locale a Chicago mentre registravamo e lui si mise a suonare; che dire, era tanto bravo che … brillava! Aveva appena vinto una gara fra settantacinque chitarristi… poco dopo Ross ci comunicò di avere l’intenzione d’abbandonare i Manowar: si risposerà ad aprile e sua moglie lo vuole sempre vicino a casa. Ora vuole suonare blues e noi gli auguriamo molta fortuna: siamo ancora molto amici e ci dispiace di non poter andare al suo matrimonio… Beh, per farla breve, chiedemmo a Dave di unirsi a noi. Dal vivo si è dimostrato molto più pesante e veloce di Ross, neanche capisco come riesca ad essere tanto veloce e, contemporaneamente, a muoversi in continuazione. Fuori dai panni del musicista è completamente uguale a quello che è sempre stato il modo di vivere dei Manowar, calza come un guanto, già ti posso dire che nelle prove sta proponendo alcune idee nuove che renderanno distruttivo il nostro prossimo disco, fra un anno e mezzo.”

 

David “The Death Dealer” Shankle

 

Si dice che tu e Joey siete entrati nella musica in modo poco ortodosso per dei musicisti rock, raccontami gli inizi della vostra carriera.

“Non posso dirti molto di Joey, so solo che iniziò a suonare nelle orchestre dei teatri di Broadway: suonare in un orchestra è il modo migliore per imparare e i risultati oggi possono sentirli tutti. Io iniziai a cantare sedici anni fa, ne avevo undici, in un gruppo chiamato “The Kids” ed ottenemmo molto successo in Spagna con un brano intitolato “Loving Everyday” che ci portò in testa alle classifiche. Poi dovetti abbandonare perché la scuola non mi consentiva di proseguire. Anche se la nostra vera scuola è stata la strada, siamo tutti arrivati alle soglie dell’università. Mio padre era una persona molto attiva: ho due fratelli e sette sorelle, posso dire di aver imparato a stare in gruppo fin da piccolo.”

Dell’unica vostra apparizione in Italia non s’è ancora spenta l’eco e già se ne prospetta un’altra: porterete con voi il Drakkar vichingo che fa parte del vostro palco negli Stati Uniti?

“Chi ti ha detto questa scemenza?”

Un mio amico fotografo di cui ora taccio il nome per evitargli una figuraccia…

“Mai pensata una cosa simile! Abbiamo studiato il modo di salire sul palco a cavallo ma è difficilmente realizzabile. Non abbiamo ancora deciso la scaletta ma non potrà contenere brani da ogni disco: oramai sono sei e lo spettacolo dura solo un’ora e mezza. Avremo sempre il muro di amplificatori e quello sarà tutto il nostro palco; al resto penserà la musica: c’è un duetto fra Dave e Joey che eseguono a velocità folle un pezzo a due mani sul manico, perfettamente all’unisono (per farvi un’idea andate ad ascoltare “Shy Boy” dove Billy Sheehan e Steve Vai fanno la stessa cosa, n.d.r): è fenomenale! Noi concepiamo il concerto come una rappresentazione teatrale incentrata sulla lotta fra chi sta dalla nostra parte e chi lotta contro il falso metallo. Il tutto giunge al culmine durante “Battle Hymns” quando, impugnando le spade, proclamiamo la nostra vittoria. Il teatro è lo spettacolo più professionale e noi siamo estremamente professionali.

 

Eric Adams

 

Ognuno di noi ha la sua personalità, siamo piuttosto calmi invero. Ma ogni volta che saliamo sul palco poniamo le nostre emozioni nei personaggi: la rabbia di essere rifiutati, di essere castrati dalla società in cui si è  costretti a vivere fuoriesce tutta in una volta dal vivo, quello è il momento in cui risplendiamo di vendetta!!! Per far capire che quei personaggi rispecchiano effettivamente il nostro pensiero è necessario avere un aspetto consono; ecco perché passo due ore della mia giornata a sollevare i bilancieri che ci portiamo dietro, ecco perché ci vestiamo di pelli di animali ed assumiamo certe pose quando siamo sotto l’obbiettivo della macchina fotografica. C’è chi ci trova ridicoli ma a noi non importa perché siamo sinceri in ciò che facciamo. E’ anche per questo che incontriamo molto più i gusti del pubblico europeo:  negli Stati Uniti ti portano in palmo di mano un giorno per poi dimenticarti completamente il giorno dopo. Mentre i ragazzi europei sono più fedeli, non si scordano facilmente di chi non li tradisce.”

Certamente nessuno di coloro che erano al Palatrussardi il 14 maggio di due anni fa si è dimenticato dell’interminabile acuto di “Gates of Valhalla” né della sbalorditiva “William’s Tale”: vuoi spiegare i trucchi che rendono possibili simili prodezze a te ed a Joey?

“Più che di trucchi parlerei di ‘accorgimenti’; Joey ha ridotto la distanza fra le corde del suo Rickenbacker tanto che sembra quasi una chitarra; inoltre usa corde più sottili del normale, il che comporta un’accordatura di qualche tono inferiore all’usuale. La sua abilità fa il resto! Per l’acuto di “Gates Of Valhalla” il segreto è nell’avere potenti muscoli nel diaframma. Io li ho e li uso comprimendoli fino allo spasimo finché non ho più una stilla d’aria nei polmoni. Durante gli ultimi istanti la vista mi si annebbia e la testa mi gira. Mi mancano anche le forze e non ce la faccio più a stare in piedi tanto che mi devo inginocchiare. Alla fine, dopo quarantacinque secondi di urlo, sono completamente spossato e recupero a fatica lo spazio dietro le quinte dove mi attacco alla maschera per l’ossigeno come un assetato alla bottiglia. Un minuto dopo son di nuovo sul palco a cantare e ogni volta mi chiedo come vi sono riuscito!”.

 

Joey De Maio

 

La dimensione dal vivo sembra esserti particolarmente congeniale, comunque più delle altre che il mestiere di musicista propone…

“La musica è la forma d’arte più completa; è emozionante, come lo è la pittura o come lo è la letteratura, ma solo la musica eseguita dal vivo mi scuote a tal punto, mi commuove tanto profondamente che neanch’io capisco cosa mi capiti. Abbiamo i più diversi interessi culturali; Joey ad esempio è un appassionato di cinema, dei grandi classici, il suo attore preferito è Erroll Flynn ma, quando parliamo di musica, di musica dal vivo, tutto passa in secondo piano. Ne veniamo completamente stregati. Non avremmo potuto fare altro che i musicisti, noi tutti viviamo di concerti”.

A quando il disco dal vivo, dunque?

“Non è molto lontano ma si dovranno superare alcune difficoltà perché vogliamo registrarlo interamente in digitale e non dovrà essere frutto di molti concerti ma la fedele riproduzione di uno solo. Credo che saremo il primo gruppo rock a registrare un vinile dal vivo digitalmente fin dalla presa diretta… è passata molta acqua sotto i ponti dal nostro primo concerto! Accadde a Miami durante le registrazioni di “Battle Hymns”; il pubblico era composito: metà erano persone che ci avevano conosciuti in quei giorni e, avendo già sentita qualche nostra canzone, non vedevano l’ora di ascoltarci in concerto; l’altra metà era completamente indifferente nei nostri confronti, tanto che, ancora oggi, non ho capito cosa ci facessero quella sera ad assistere al nostro debutto. In Florida è rimasto Donnie, il nostro batterista di allora. Lui se ne andò perché aveva paura di affrontare il pubblico. L’ho sentito al telefono circa un mese fa, suona in un gruppo locale ma non credo che abbia intenzioni professionali”.

Se dovessi tirare le somme del bilancio con la sorte, i Manowar chiuderebbero in attivo o in passivo?

“Nonostante tutto siamo stati fortunati”.

 

Scott Columbus

 

Allora l’anatema lanciatovi da King Diamond cinque anni fa si è rivelato inefficace?

“Ancora questa storia? Ti dirò una volta per tutte come si svolsero i fatti… Dunque, era la prima data dei concerti inglesi dopo “Hail to England” ed i Mercyful Fate si presentarono in ritardo alle prove, senza equipaggiamento e con un tecnico del suono incapace di distinguere un basso da una chitarra.

Noi li lasciammo provare oltre i tempi consentiti e poi suonarono con la nostra amplificazione guidati dal nostro ingegnere del suono. Ciononostante fecero pena e il pubblico li subissò di fischi tanto che riuscirono a malapena a finire il concerto. Dopodiché scomparvero, senza alcun preavviso e tenendo i soldi intascati per quei concerti. Poco male per le altre date inglesi dove il pubblico era lì solo per noi, ma qualche tempo dopo a Copenhagen molti loro connazionali che erano venuti soprattutto per loro, rimasero alquanto delusi dalla loro assenza, il che si rivolse contro di noi che venimmo contestati. Deludere i propri fan è la cosa che un gruppo deve evitare a tutti i costi, invece King Diamond ed i suoi lo fecero senza pensarci due volte: credo che questo basti a qualificare il personaggio. Poi vennero le calunnie e le accuse ma a quel punto King suscitava in noi solo compassione. La sua maledizione è stata efficace, solo su di lui però! Ora vendiamo il triplo dei suoi dischi”.

Quindi siete più forti del male…

“Se tutti i mali fossero come King Diamond vivremmo in paradiso! Siamo tutti cristiani ma, credimi, è più la fede in noi stessi che quella in Dio ad averci fatto arrivare dove siamo ora. Vorrei che anche chi legge questa intervista avesse più fiducia nelle sue possibilità: spesso è la chiave per vincere. Sarebbe eccezionale che, quando verranno a vederci in aprile, conoscano tutte le nostre canzoni a memoria e le cantino in piedi, insieme a me!”

Giulio Ceriani

 

Articolo a cura di Stefano “Steven Rich” Ricetti