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Intervista Rhapsody of Fire (Roberto De Micheli)

Di Luca Montini - 10 Dicembre 2021 - 0:05
Intervista Rhapsody of Fire (Roberto De Micheli)

In occasione dell’uscita del nuovo album “Glory For Salvation”, il secondo in discografia con Giacomo Voli al microfono e secondo capitolo della “Nephilim Saga”, abbiamo intervistato il chitarrista Roby De Micheli, che assieme al fondatore Alex Staropoli tiene le redini della power metal band triestina più famosa al mondo.

 

rhapsody-of-fire-logo

Ciao Roberto e benvenuto su Truemetal.it! Come va?

Molto bene. Stiamo facendo un sacco di interviste. Sono tutti entusiasti del disco, abbiamo avuto un feedback assolutamente positivo in generale da tutto il mondo. Tralasciando naturalmente il momento storico che ben conosciamo, per quello che ci riguarda posso dire che è un bel momento.

A proposito del periodo, come va a Trieste? Sulla stampa nazionale si parla tanto dei portuali in protesta (l’intervista è di alcune settimane fa).

Qua è venuta fuori proprio la mentalità triestina. Trieste è una città fantastica, ma come mentalità siamo particolari: siamo un po’ austriaci, un po’ italiani, un po’ slavi… un bel mix… e siamo testardi. In questo momento è venuto fuori il pugno duro triestino. Al di là del fatto che sia o meno condivisibile la protesta, per lo meno è stata fatta in modo pacifico.

Veniamo al vostro nuovo disco “Glory For Salvation”: come è nato e quando avete iniziato a lavorarci? Leggo che ha iniziato principalmente Alex anche ispirato da alcuni tuoi riff. Raccontaci un po’ la genesi.

Essendo una saga, il canovaccio della storia era già pronto. Dal punto di vista della scrittura e degli argomenti trattati era già tutto definito. Dal punto di vista musicale abbiamo invece fatto una grossa ricerca. Parlare di qualcosa di nuovo non è facile, ma abbiamo cercato con Alex dei particolari e delle sfumature che fossero diverse dal consueto. Ci siamo fatti ispirare dalla musica fine anni ’70 e anni ’80, nel tentativo di coniugare la natura dei Rhapsody of Fire con qualcosa che richiamasse le nostre origini, la musica con la quale siamo cresciuti. Non solo l’AOR o l’hair metal anni ’80 ma anche influenze precedenti come Led Zepplin e Deep Purple, Dio… facendoci trasportare da qualcosa di diverso per incorporarlo nella nostra matrice. Poi abbiamo dato in mano il tutto a Giacomo che con grandissima qualità e professionalità ha lavorato sui testi, sempre partendo dal canovaccio che abbiamo impostato io ed Alex. Ci siamo infatti resi conto che un cantante che canta su parole che ha scritto le sente in modo diverso. Questa è una delle marce in più che abbiamo avuto da “The Eighth Mountain” a quest’ultimo “Glory for Salvation”. Il suono delle parole è qualcosa che ti avvolge, al di là degli argomenti nei quali ti ritrovi.

cover Glory For Salvation

Hai parlato della saga, ci puoi raccontare qualcosa in più dell’aspetto narrativo della Nephilim Saga?

Abbiamo cercato di coniugare il mondo fantasy che è un segno distintivo dei Rhapsody con temi che si avvicinassero un po’ a qualcosa di più moderno. Penso a luoghi come l’Abyss of Pain, che è il punto da cui inizia la saga e in cui l’eroe viene rimandato perché non ha fatto alcune cose, è un ambiente non proprio fantasy. Sul canovaccio ci siamo lasciati ispirare da metafore che riguardano la vita di ognuno di noi, su quello che può essere visto come un percorso di redenzione, un percorso di maturazione dell’essere umano. L’eroe in questo caso è una persona che si avvede dei propri errori e si prodiga per sistemare il tutto. “Glory for Salvation” è il risveglio. L’eroe si rende conto che c’è qualcuno dietro che lo manipola e gli fa fare qualcosa che non vuole. Un tema molto attuale questo della manipolazione, non solo nell’ambito delle informazioni.

Avete già pensato di quanti capitoli sarà composta la saga?

Siamo partiti con un’idea ma ci stiamo ancora pensando. Era nata come una trilogia e lo avevamo anche dichiarato. Però abbiamo molti stimoli e possiamo anche pensare di allungarla, purché abbia un senso. Non si può annacquare qualcosa tanto per farlo: deve avere delle forti motivazioni.

Come è stata la produzione? Avete avuto problemi durante le registrazioni con il covid?

Si, è stato un bel casino. (ride) Ci siamo dovuti arrangiare registrando ognuno nel proprio studio. Solo Giacomo è venuto qui in studio quando si poteva fare. Ognuno di noi ha un suo studio di piccole dimensioni per fare delle registrazioni personali. Poi abbiamo mandato tutto a Seeb Levermann che ha fatto un lavoro clamoroso. Lavorare con noi non è una cosa molto semplice: a livello di frequenze c’è di tutto e noi abbiamo esattamente in testa il nostro suono, sappiamo dove deve arrivare e non è semprefacile. Ma lui è un professionista davvero di altissimo livello.

Invece gli strumenti barocchi e i cori?

Gli strumenti barocchi li ha registrati Alex assieme ad Alberto Bravin, il sound eingeneer di “Into the Legend” che ha lavorato con noi negli ultimi anni. Hanno registrato credo a Milano, è una parte che ha seguito principalmente Alex. La qualità è molto alta, la si può sentire ad esempio su “Therial the Hawk”… senti proprio la “botta” degli strumenti, il suono del legno. A me piace molto mettermi con le cuffie o con un impianto di qualità per ascoltare queste sfumature, è un godimento incredibile.

Per quanto sia sempre importante avere un impianto adatto, in questo genere così ricco e bombastico è ancor più fondamentale per non perdere gran parte del lavoro fatto.

Assolutamente! Le vibrazioni degli strumenti veri hanno un’anima completamente diversa. Venendo ai cori invece se ne è occupato Giacomo con Alex. Un lavoro davvero devastante. Tutti i ragazzi che hanno partecipato sono stati bravissimi. Tutti con le spade. Pur essendo un momento complicato devo dire che tutti quelli che hanno partecipato a questo disco sono stati davvero eccezionali, sia dal punto di vista dell’impegno, della serietà e della performance. Professionisti di altissimo livello. In questo siamo stati fortunati, nella sfortuna del periodo. Ne approfitto quest’intervista per ringraziarli tutti.

Sempre sull’album venendo al tuo lavoro: come hai gestito la stesura dei riff e del solos? Come ti sei orientato e qual è stato il tuo contributo come chitarrista?

Io sono stato uno di quelli che sono arrivati all’inizio della band, quando ci chiamavamo ancora Thundercross. Io e Luca Turilli eravamo compagni di banco a scuola, ho sempre gravitato attorno a questo sistema anche se non c’ero. Questo tipo di musica ci ha sempre legato tra noi. Il riffing e tutto quello che riguarda i solos, le armonizzazioni e le melodie di chitarra sono quelle tipiche all’interno del genere, ma visti dalla mia prospettiva. Io amo il neoclassico ma non allo sfinimento. Mi piace che ci sia una punta di neoclassico ma anche qualcosa di più moderno. Ho lavorato per cercare di mettere insieme queste cose. Stiamo già lavorando al prossimo disco perché avevamo talmente tanto materiale da scegliere alcune song per questo disco e altre per il successivo, dove c’è molto materiale aggressivo. Anche in questo disco c’è un’attitudine più moderna e aggressiva. Sui solos c’è sempre l’idea di stare sullo shredding, ma penso anche che dove servono tre note si mettono tre note, non è necessario fare i funamboli, diventa stucchevole. Se senti l’assolo the “The Wind, the Rain and the Moon” ti accorgi che bastavano cinque note e non cinquanta, e tre note ho messo.

 

Riascolto ogni tanto però “Valley of Shadow” di qualche anno fa e ti confesso che lì ho apprezzato molto l’attitudine da shredder.

Là sono andato un po’ oltre (ride), però in diversi mi hanno dato feedback positivi su quell’assolo, che ha colpito particolarmente.

Sempre sul nuovo disco, quali sono i brani che definiresti i migliori del lotto?

Questa è una domanda cattiva. Non lo so, ce ne sono veramente tanti che hanno dei momenti particolari e interessanti che farei fatica a scegliere…

A proposito ho notato che forse per la prima volta nella storia dei Rhapsody avete inserito la suite a metà disco e non alla fine, mentre chiudete con la ballad. Ne avete discusso?

Si, ci piaceva l’idea che la suite andasse in quel punto. Anche per motivi di storia. Il ritorno dell’eroe nell’Abyss of Pain avviene in quel punto, quindi ci siamo ritrovati tra le mani questa canzone e così abbiamo provato. Ascoltando il disco è venuto molto naturale che fosse lì. L’intro e l’outro di quel brano stemperano un po’ il mood, quindi abbiamo la possibilità di entrare e uscire nella song durante l’ascolto completo del disco con un calzante e uno scivolo d’uscita. In “The Eight Mountain” in verità avevamo due suite: “March against the Tyrant” e “Tales of a Hero’s Fate”, una a metà e una alla fine, ma essendocene una sola questa effettivamente è la prima volta che la mettiamo solo lì.

Veniamo alle date live e tour: avete già qualcosa in programma?

Abbiamo già pubblicato le date del tour qualche settimana fa. Abbiamo una trentina di concerti tra metà gennaio e febbraio. Un tour bello lungo e importante, speriamo si possa procedere. Le limitazioni spezzano quell’energia che si crea quando suoni dal vivo. Noi abbiamo una voglia pazzesca come tutte la band al momento di tornare sul palco e condividere tempo e spazio con i fan. Abbiamo voglia di rivedere i visi sorridenti delle persone quando vengono ai concerti, abbiamo voglia di parlare alla fine dei concerti coi fan che si fermano e di condividere il lavoro fatto. La voglia c’è, noi ci proverremo fino all’ultimo giorno. Speriamo si riesca.

Il problema immagino stia anche nelle varie legislazioni in ogni paese europeo.

Il problema più grosso per come la vedo io è: se uno si ammala in tour, come facciamo? Questa è la grande domanda. È il problema nella testa di tutte le band. Se si ammala un componente, suoniamo in uno in meno? Saltiamo le date? Ci fermiamo? Tutti in quarantena? Questo è il problema più importante; seguire le regole è comunque possibile, basta approfondire e rispettare le norme di ogni paese. Ma se uno si ammala non è facile da affrontare. Incrociamo le dita.

Alcune domande un po’ più personali. Innanzi tutto come hai passato questi mesi di covid?

In generale sono uno che studia sempre, in continuazione il proprio strumento. Sono un assiduo ricercatore e sperimentatore di suoni, riff, strutture… quindi ho impiegato tanto tempo proprio a registrare materiale di continuo. Nella mia testa essendo un rimasuglio degli anni ’80 (ride) ho sempre questo desiderio di fare un disco strumentale, perché come chitarrista del ’72 ho passato la mia adolescenza sperando di diventare una via di mezzo tra Malmsteen, Jason Becker, Paul Gilbert, Joe Satriani e Steve Vai. Ho approfittato di questi mesi per scrivere un sacco di roba che non so se vedrà mai la luce, però intanto l’ho registrata ed è lì, vediamo se germoglia! Per il resto per fortuna vivendo a Trieste tra mare, spazi e tutto ho avuto modo di correre, andare a giocare a tennis, andare in bici… quindi sono riuscito a tenermi in allenamento anche da questo punto di vista. Poi a cinquant’anni se non fai movimento metti su la pancia! (ride)

Ricordo un’intervista qualche anno fa a Michael Kiske che si sentiva vocalmente in gran forma ma si lamentava scherzando di essere grasso.

Eh si, bisogna autoregolarsi, fare molto sport e correre! Poi in tour bisogna partire con una buona forma. Poi qualche sera vai un po’ più lungo, per dire se il giorno dopo hai un travel-day o un day off quindi poi permetterti di bere un paio di birre e stare maggiormente in relax.

Mi hai parlato dei tuoi chitarristi preferiti, restiamo sul pianeta chitarra. Parlaci un po’ del gear di Roby De Micheli: le chitarre che usi, testate, ampli…

Prima ti faccio un piccolo excursus dei chitarristi che mi hanno ispirato perché arrivando direttamente da “Ritorno al Futuro”, gli anni ’80 sono i nostri anni! (ride) Volevo spendere una parola per il chitarrismo italiano. Mi sento veramente orgoglioso di affermare che noi in Italia abbiamo un parco di chitarristi di assoluto valore a livello internazionale. Al di là dei musicisti che mi hanno influenzato, in questo momento storico abbiamo una grande quantità di artisti, ragazzi coetanei o più giovani che suonano nelle band metal o hard rock italiane e che veramente hanno alzato il livello generale in maniera significativa, e spesso quando sono in giro per il mondo mi rendo conto di come questo sia riconosciuto, ben visto ed apprezzato. Questa cosa mi rende orgoglioso.

Qualche nome?

Simone Mularoni, che oltre ad essere un chitarrista notevole è anche un produttore di tutto rispetto. Aldo Lonobile dei Secret Sphere che è un altro chitarrista di assoluto valore. Amici che ho conosciuto nel tempo come Lorenzo Venza, un chitarrista che si occupa di jazz e fusion che aveva una band prog-metal. Poi Marco Sfogli, anche lui amico che suona nella PFM e con LaBrie. Ma ce ne sono veramente un sacco di ragazzi molto bravi e di cui andare fieri!

Verissimo. Torniamo invece alla strumentazione…

Io uso da anni le chitarre Kiesel di cui sono endorser, che sono praticamente le chitarre Carvin che poi sono diventate chitarre Kiesel. Chitarre americane, per me di una fattura eccezionale, fatte su misura. Mi trovo particolarmente bene. Sulle testate, sono da anni endorser della ENGL, che è con una grande varietà di amplificazione, davvero sinonimo di musica metal. Non ha nessun rivale. Uso sia le Fireball che le Savage come testate, sono davvero delle bombe! Con casse sempre ENGL. Effettistica ne uso davvero poca, live ho solo un Ts9 per dare un po’ di boost sui soli, un po’ di compressione e un po’ di delay per dare un po’ di ambiente. Rispetto a vent’anni fa una testata da sola ti fa quello che ti faceva un rack di dieci unità. Poi ho delle situazioni di backup con i vari Kemper, accessori che servono per backup nel caso ti si rompa qualcosa, se c’è un problema su qualche palco.  Io sono un tipo alla vecchia maniera, mi piace la testata e la cassa con microfono frontale, ma se ci sono situazioni difficili da risolvere si fa di necessità virtù ed ho tutto profilato.

Un suggerimento che daresti ad un giovane che si approccia ora al mondo della chitarra, ascoltando musica metal.

Sicuramente ricordare che la didattica è importante. Affiancarsi a qualcuno che può darti delle nozioni didattiche importanti e che ti dia gli strumenti per tirare fuori quello che tu hai da dire. Alla fine ogni musicista, non solo chitarristi, viene fuori se ha qualcosa da dire. Ma per dire qualcosa devi imparare a parlare… e per imparare a parlare qualcuno ti deve insegnare l’alfabeto, e come usarlo. Per la musica la didattica ti dà questi strumenti. Avere qualcuno che ti dia gli strumenti per crearti il tuo vocabolario è importante, acquisiti i quali si è autonomi e lì inizia il vero viaggio, un viaggio alla ricerca dentro sé stessi per mettere in musica i tuoi pensieri, le tue visioni, le tue speranze, le tue delusioni, le tue incazzature, i tuoi sogni e tutto quanto. Una bella ricerca dentro sé stessi.

Grazie Roby per la tua disponibilità e cortesia! Ultima domanda di rito: il tuo saluto ai nostri lettori.

Il messaggio è un messaggio generale. Stiamo vivendo un momento storico assolutamente incredibile, che finirà sui libri di storia. Ognuno di noi sarà parte di tutto questo. Penso che in questo momento, nessuno escluso, dobbiamo rimboccarci tutti le maniche, dal primo all’ultimo. Restare sempre tanto uniti, capire che abbiamo l’uno bisogno dell’altro.

Intervista a cura di Luca “Montsteen” Montini