Heavy

Intervista Saxon (1987)

Di Stefano Ricetti - 26 Febbraio 2010 - 0:10
Intervista Saxon (1987)

Intervista a Biff Byford dei Saxon da parte di Fabio Testa tratta dalla rivista H/M numero 14 del 1987.

Buona lettura.

Steven Rich

OVER THE TOP

Lavorano duramente in America, portano il loro durissimo rock’n’roll sulle strade in cui questa musica è nata. I Saxon stanno lentamente diventando dei classici. Qualcuno ne poteva dubitare?

Los Angeles – Sono gli stakanovisti del rock. Non si fermano mai. Come gli squali dormono anche mentre nuotano, loro suonano mentre dormono. E se non stanno suonando, in tournée o in allenamento, sicuramente stanno scrivendo. O incidendo un ennesimo disco. Nove in sette anni di carriera. Roba da preistoria: coi tempi che corrono e coi gruppi che si formano e sfasciano nel giro di un paio di LP, il loro è quasi un record. Vengono da un ambiente di lavoratori, sono cresciuti nel centro-nord dell’Inghilterra dove il grigio scuro del cielo si confonde con quello della polvere di carbone. Prima, per sopravvivere, facevano i minatori o i meccanici. Uno di loro, addirittura, entrambe le cose. Ora che hanno risalito i tunnel delle miniere e lasciato le officine, non si sono montati la testa. Non hanno rinnegato le proprie origini, non si sono aristocraticizzati, nonostante siano il gruppo preferito di Re Gustavo XVI di Svezia (il quale ha organizzato e presieduto una festa in loro onore nell’ottobre scorso). Non sono entrati a far parte dell’elite mondana del rock, nonostante siano delle superstar (e il fatto che Elton John appaia in due brani del loro nuovo LP ne è la conferma). Non si sono politicizzati, nonostante il loro passato glielo avrebbe potuto permettere.

H/M numero 14 anno 1987: la copertina

 

Sono invece rimasti fedeli a sé stessi. E al proprio pubblico, che anno dopo anno, tour dopo tour, si è moltiplicato in tutto il mondo. Tranne forse, che in America, dove oltre che la musica, a volte, bisogna anche presentare un gimmick, un trucco, uno specchio per le allodole. Ma l’unico trucco che loro conoscono è quello di continuare per la propria strada, cioè ad esibirsi incessantemente, onestamente, senza uno slogan sulla politica, un costume eccentrico o un cliché da pagliaccio. Con questa filosofia di vita sono già durati più a lungo della new wave, dei punk, dell’heavy metal, del death metal. Sicuramente sopravviveranno anche al glam rock, così di moda oggigiorno. Sono come una testuggine, un camion diesel anni 50, uno schiacciasassi. Ma alla fine stanno avendo ragione: il loro ultimo LP ha ottime probabilità di diventare di platino anche negli USA. I loro concerti sono una festa condita con potenza ma anche con tanta divertentissima ironia. Sono la working class band per eccellenza, il gruppo più operaio in circolazione. Se l’America rappresenta l’Eden musicale, allora si può dire che la classe operaia sta finalmente entrando in paradiso.

— Biff, partiamo subito con l’ultimo LP, Rock The Nations. Mi sembra molto melodico.

— Il nostro tipo di heavy metal in fondo, è un heavy rock melodico. Il termine heavy metal è cambiato molto dai suoi inizi. Quando noi abbiamo cominciato a suonare, veniva usato per definire la generazione successiva a quella dei Led Zeppelin, o dei Black Sabbath. Qualsiasi gruppo rock nato tra l’80 e l’83 era definito heavy metal.

— Il death metal e il culto del diavolo hanno cambiato un po’ le cose.

— Si. E’ da allora che molti gruppi si sono dissociati dal termine heavy metal. Questa è la reazione per cui oggi rientriamo più nella categoria di heavy rock, o meglio, così i critici si divertono a definirci.

— Tra il glam rock e il death metal, mi sembra che voi siate ancorati od una purezza che definirei classica.

— Noi siamo l’esempio vivente che per intrattenere e coinvolgere una folla non è necessario né tirare pezzi di carne di maiale dal palcoscenico, né travestirsi da donne. In questo senso, sì, siamo un gruppo classico di rock and roll.

— Siete sulla scena da più di sette anni.

— E lo saremo ancora per un bel po’. Sicuramente per molto tempo dopo che queste mode saranno passate. Noi ci consideriamo nella stessa categoria di gruppi come i Queen o i Deep Purple. Alcune canzoni che abbiamo scritto nell’80 sono tuttora delle ottime canzoni. Prendi ad esempio Strong Arm Of The Law o Princess Of The Night, o Power And The Giory. Potremmo continuare a suonarle per il resto della nostra vita e continuare ad avere successo! Comunque non ci siamo fermati a quelle. La nuova Rock The Nations dovrebbe seguire lo stesso filone.

— Non so quanto conti la mia opinione, ma io ne sono sicuro. Tra l’altro mi piace molto il suo messaggio indiretto di pace. Anche il concetto che avete espresso sulla copertina (dove una moltitudine di folla sotto i colori di varie bandiere è riunita dal comune denominatore del rock) è semplice ma efficace.

— Penso che la musica al suo stato naturale sia apolitica. La sua bellezza, però, è che ha il potere di unire la gente; di qualunque nazione essa sia. Noi possiamo suonare in Italia o in Polonia, e comunicare con il pubblico. Nemmeno i politici potrebbero farlo!

— Essere stati minatori, l’avere tastato gli elementi più umani e terreni della vita, vi ha aiutato nelle vostre relazioni?

— Senz’altro. Non saremmo insieme da così tanto tempo altrimenti. La classe operaia fa nascere uomini che devono saper sopravvivere. E per sopravvivere bisogna sapersi piegare ed adattare.

— Odio mischiare musica e politica, comunque questa domanda te la faccio lo stesso. Credi che gli Europei siano più interessati alla politica degli Americani?

— Sì. Ma solo perché siamo più vicini al fronte, non trovi?

— Voi siete conosciuti come un gruppo lavoratore, nel senso che siete sempre in tour. Quello che avete intrapreso ora durerà 11 mesi. Non vi sembra di esagerare?

— Ci siamo abituati, non ci fa paura. Crediamo fermamente nel nostro ultimo LP. Penso che sia il migliore che abbiamo fatto finora e lo vogliamo promuovere nel miglior modo possibile, soprattutto in America.

— Ma l’America è ancora un sogno?

— Beh un po’ sì. Non è mistero il nostro obiettivo di raggiungere anche in America la popolarità che abbiamo nel resto dei mondo. Vogliamo finalmente ottenere un disco di platino qui negli Stati Uniti. Per farlo abbiamo bisogno o di un singolo Top 40, o di suonare per 5 mesi consecutivi. Speriamo di riuscire in entrambi i casi!

— Il fatto che Elton John abbia suonato con voi su Rock The Nations vi aiuterà in questo?

— Non più di tanto. Anzi, probabilmente non farà nessuna differenza. Comunque è stato divertente improvvisare con lui. E’ un caro amico. Mentre stavamo registrando in studio, lui che era in quello accanto al nostro, ci è venuto a trovare varie volte, finché un giorno è scattata fuori l’idea di fare una session. La canzone che stavamo incidendo in quel momento era Party Till You Puke! ed è stata quella in cui lui ha suonato. Con lui al piano è diventata più boogie-woogie, il che l’ha resa più interessante.

— Questa canzone oltre ad essere un eccezionale inno al divertimento, mi sembra anche un’eccezionale parodia di gruppi heavy metal che a volte si prendono talmente sul serio da risultare  ridicoli (il titolo significa “Festeggia Fino A Che Vomiti”).

— Beh, è un brano che serve a prendere due piccioni con una fava, no? Scherzi a parte, bisogna sapere guardare alla vita con un po’ di ironia.

— Che differenza trovi tra l’heavy metal americano e quello inglese?

— Credo che in Inghilterra venga prima la musica e poi l’immagine. In America spesso avviene il contrario, soprattutto nei nuovi gruppi. Non in tutti però. Ad esempio vedo abbastanza bene i Black’n’Blue.

— E’ difficile essere famosi su entrambe le sponde dell’Oceano Atlantico?

— Estremamente. Pochi artisti ci riescono, anche se mi sembra che siano più i Britannici ad avere successo in America, che non viceversa.

— Quali gruppi heavy metal americani credi che abbiano avuto una rilevante importanza in Europa?

— Credo i Motley Crue. Ora vanno molto forte i Bon Jovi, ma non sono veramente poi così heavy. Viceversa mi sembra che gli scandinavi Europe stiano difendendosi bene in America.

— Non sono i soli tra gli Scandinavi ad andare forte. C’è anche Malmsteen (Yngwie per gli addetti ai lavori) che ha avuto talmente tanto successo do trasferirsi direttamente qui.

— Già. Lo conosciamo bene. Siamo amici, avendo suonato varie serate insieme a lui negli Stati Uniti.

— Voi avete veramente girato il mondo in lungo e in largo. Siete stati anche nei paesi dell’Est Europeo e del Medio Oriente. Che differenza trovi, ad esempio, tra il pubblico del Nord e del Sud Europa?

— E un po’ la stessa differenza che c’è tra l’America e l’Inghilterra. il pubblico del Sud Europa tende a non essere abbagliato dall’immagine dell’artista, a concentrarsi più sulla musica rispetto al pubblico tedesco o scandinavo.

— Come vi ha trattato il pubblico italiano?

— Noi siamo un po’ un caso speciale, perché siamo venuti in Italia tantissime volte. Quindi ci vogliono bene. Credo non ci sia un altro gruppo che sia venuto in Italia così spesso! Abbiamo fatto dei bellissimi concerti sia a Milano che a Roma.

— Siete già venuti per questo tour?

— No, non ancora. Verremo in estate, quando suoneremo in Italia, Spagna, Francia, Grecia e Yugoslavia. Ho veramente voglia di tornare, anche perché mi dicono che Rock The Nations abbia già venduto più di qualsiasi altro nostro LP. Voglio poter ringraziare di persona i nostri fans!

— Dì loro un lato di te che forse non conoscono. Un hobby che contrasti un po’ con la tua immagine di superstar dell’heavy rock.

— Mi piace collezionare oggetti d’antiquariato. E’ uno dei miei lati tranquilli. Colleziono pezzi d’arredamento per la mia casa che è molto antica. Generalmente mi interesso del periodo Vittoriano.

— Sei mai stato o Venezia?

— Una volta. Ci siamo venuti per 4 giorni. L’abbiamo usata come base, anche se suonavamo in diverse città. Era di primavera, un periodo molto quieto e romantico, persino per dei matti in un gruppo rock! Purtroppo, però, mi ricordo che ci furono un po’ di casini da parte del pubblico durante quel tour.

— Tranquillizzati, ormai non succedono più.

— Sì, lo so. Sono una cosa del passato. Come ad esempio la prima volta che suonammo in Italia, a Milano, nell’82 credo…

— Preferisco tralasciare. Sai, non vorrei che i vostri ammiratori se la prendessero a male.

— No, no, ascolta! È divertente! Dunque, ci sono 13.000 mila persone al Palazzetto dello Sport, e altre 10.000 fuori che pretendono assolutamente di entrare gratis…

— Sì, sì, ho capito, lasciamo perdere…

— Ma no, aspetta. Non è questa,la parte divertente! Dunque, tutto il nostro equipaggiamento è bloccato da qualche parte sulle Alpi. Così dobbiamo farci prestare tutti gli strumenti e l’impianto del suono dal gruppo spalla. Una cosa orrenda! Non avevamo nemmeno i costumi. Ma tra la folla noto un ragazzo vestito come me in scena. Così lo rapiamo e lo svestiamo. Insomma ci scambiamo i vestiti. Mettilo questo nel tuo articolo, eh? Se lo legge si riconosce!

FABIO TESTA

Fotoservizio di Davide Cincis

 

Articolo a cura di Stefano “Steven Rich” Ricetti