Recensione Libro: ‘Motorhead – In The Studio’
Motorhead – In the Studio
Autori: Jake Brown e Lemmy Kilmister
John Blake Publishing Ltd
ISBN 9781844548507
Anno: 2009
Pagine: 255
Motorhead: In The Studio è libro atipico e va sottolineato fin dall’inizio. A parte questo netto e deciso incipit, il lavoro, a differenza di altre situazioni editoriali che hanno visto coinvolte inconsapevolmente le Teste di Motore, vede il Signor Ian Fraser Kilmister detto Lemmy totalmente complice del biografo Jake Brown – l’autore dell’opera – nonché attore principale. La vera forza di In The Studio risiede proprio in questo ed è foriera di informazioni inedite e aneddoti vari, indispensabili per legittimare l’uscita di un volume musicale di questo tipo degno di tale nome. Non sempre, però, l’esercizio riesce del tutto: talvolta fanno capolino citazioni “esterne” che, se è vero che hanno una propria valenza e senso compiuto quando funzionali alla tematica che si sta sviluppando viceversa risultano irritanti per colmare lacune editoriali e di stesura. Trattasi di peccati veniali, comunque.
All’interno di In The Studio la suddivisione in capitoli segue pedissequamente e cronologicamente tutta la discografia dei Motorhead, che consta di ventisei sigilli ufficiali. Ogni album viene vivisezionato e idealmente il narrato a riguardo potrebbe tranquillamente vivere di vita propria, ancorché spesso arricchito tramite il racconto diretto dei produttori e degli ingegneri del suono che si sono succeduti durante quegli anni. L’approccio sufficientemente distaccato dell’autore, figlio di un atteggiamento super partes che denota un certa professionalità, misto a una completa ma non ottusa dedizione alla band permette durante lo scorrere delle pagine di poter assaporare anche le “altre campane” e non solamente quella del Signor Kilmister. In questo senso illuminanti ed agrodolci risultano essere gli interventi di Pete Gill, indimenticabile bombardiere del gruppo nel periodo aureo “No Remorse/Orgasmatron” – basti sapere che l’ex Saxon definisce White Line Fever, ovvero la biografia ufficiale di Lemmy, come “piuttosto patetica” -, così come romanticamente spietati sono i giudizi di Mikkey Dee nei confronti dei suoi predecessori dietro le pelli. Fa davvero piacere leggere queste notizie, totalmente scevre da falso buonismo, che peraltro non ha mai fatto parte dell’universo Motorhead in senso stretto, come si evince anche in questa ulteriore testimonianza letteraria.
A tratti la disamina dei capitoli discografici e delle singole canzoni del combo inglese si perde nei meandri dei particolari tecnici che, se è vero che manderanno in sollucchero i die hard fan di Lemmy e soci in possesso di un bagaglio culturale da specialisti del settore altrettanto probabilmente mieteranno vittime nella maggioranza dei lettori, più avvezzi alle mere sensazioni che la musica procura. Sapere che Philty Animal Taylor ha registrato le casse di Train Kept a Rollin’ con i microfoni Neumann della serie 87 – piuttosto che con l’AKG-224 E o l’AKG-451 – in certe ben specifiche posizioni e i tom con la serie 87S (mi fermo qua per non dover descrivere ogni altro componente) probabilmente non ci cambierà la vita ma tant’è. Di tono totalmente opposto, invece, lo scoop che riguarda la registrazione del basso di Lemmy durante le sessioni di Overkill: il miglior suono per il suo Rickenbacker usciva dallo speaker più malmesso e difettoso della serie di Marshall a disposizione. Inutile sottolineare che proprio quello è poi finito sul disco…
Irresistibile il fascino procurato dalla carta ruvida utilizzata dalla John Blake Publishing Co. per confezionare le 250 pagine di In The Studio così come la tipologia a caratteri gotici in stile Motorhead che sancisce ogni capitolo. Oltre allo scritto vi sono otto pagine consecutive di foto fra le quali colpiscono quelle di Lemmy con Ozzy Osbourne nel 1981 – completamente ignari dello scatto – piuttosto che altre nelle quali i Motorhead vengono immortalati durante delle esibizioni televisive: Francia 1987, Top Of The Pops 1979 e Channel’s 4 The Tube.
Al momento il libro è disponibile solamente in idioma inglese e risulta ordinabile prevalentemente tramite canali Internet. La lingua e la sintassi utilizzata sono sufficientemente traducibili senza dover sempre e per forza avere a fianco il dizionario, ovviamente per chi non ha litigato fin da piccolo con la parlata in uso nelle terre dell’Union Jack. Molto difficilmente verrà riproposto in italiano nell’immediato futuro. Quantomeno è quello che presumo a riguardo.
Stefano “Steven Rich” Ricetti