Folk - Viking

Live Report: Fosch Fest 2015, Bagnatica – Giorni 2-3 e conclusione

Di Francesco Gabaglio - 21 Agosto 2015 - 1:55
Live Report: Fosch Fest 2015, Bagnatica – Giorni 2-3 e conclusione

FOSCH FEST 2015
7 – 9 agosto 2015, Bagnatica (BG)
Live report a cura di Francesco “Gabba” Gabaglio

 

Seconda parte: giornate 2-3 e conclusione

(qui la prima parte)

 

 

 

2° giorno – sabato 8 agosto

Running order:
14.30 – 15.00 Veratrum
15.20 – 16.00 Methedras
16.20 – 17.15 Finsterforst
17.35 – 18.35 Heidevolk
18.35 – 19.25 pausa
19.25 – 20.35 Kampfar
20.55 – 22.10 Arkona
22.30 – 00.00 Carcass

Dopo un brevissimo sonno (per chi è riuscito a dormire, s’intende), il sole batte impietoso e sveglia tutti già di primo mattino. La ricerca di uno spiazzo d’ombra diventa vitale, in attesa di poter accedere all’area festival; oggi i concerti inizieranno alle 14.30 e vedranno avvicendarsi band di grande richiamo. È forse questo, infatti, il giorno di maggior affluenza del festival. Le aree parcheggio e camping si riempiono inesorabilmente di orde di metallari, giunti anche e soprattutto per le star assolute di questo sabato: i Carcass.

Si comincia ancora con due band nostrane: prima i bergamaschi Veratrum, autori di un death metal di ottima fattura. Forte dei suoi due album, Sentieri dimenticati e Mondi sospesi (quest’ultimo pubblicato lo scorso aprile), il combo riesce nella non facile impresa di richiamare davanti al palco qualche coraggioso che sfida temerariamente il sole a picco.

Anche i Methedras si trovano a sfidare la canicola; similmente, offrono al pubblico del death metal di buona fattura ma decisamente più diretto e cantato in inglese. Il pubblico, ora innaffiato e refrigerato con un idrante dallo staff, è aumentato e si dimostra entusiasta e coinvolto dal combo lombardo. Sicuramente la scelta di piazzare Veratrum e Methedras lo stesso giorno dei Carcass ha giovato, a livello di pubblico, ad entrambe le band in virtù della relativa vicinanza di genere.

I tedeschi Finsterforst sono invece la prima band estera di questo FoschFest. Il loro è un folk metal epico e dalle sonorità ampie, con qualche incurisione su terreni più danzerecci. Nonostante i Nostri siano forse ancora poco conosciuti in Italia il pubblico, immediatamente riconosciuta la bravura dei germanici, accorre numeroso sotto il palco e si fa volentieri coinvolgere, incitato da un fisarmonicista dalle buffe espressioni facciali. Anche la band è visibilmente compiaciuta dal caloroso feedback ricevuto. La scaletta dà un certo spazio all’ultimo album, Mach dich frei, ma non trascura nemmeno quelli precedenti, andando a pescare, tra gli altri, brani molto orecchiabili e sing-along come Fösterhochzeit, rivisitazione di una canzone popolare tedesca chiamata Die Vogelhochzeit. Un concerto davvero divertente e una bella sorpresa per molti.

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Tocca poi agli attesissimi Heidevolk, band che quest’anno marca la sua seconda presenza al FoschFest. Nonostante il pesante cambio nella lineup avvenuto quest’anno, la band riesce comunque a mettere su uno show di tutto rispetto. «Sembrano quelli veri», commenta qualcuno, tra il sarcastico e lo stupito. Ed è davvero così: Jacco (voce) e Kevin Storm (chitarra), che sostituiscono rispettivamente gli uscenti Mark e Reamon, paiono parte della band a tutti gli effetti. La voce di Jacco, in particolare, riesce a sostituire senza rimpianti quella dello storico predecessore e a far coppia in modo quasi perfetto con quella di Lars. I suoni scelti per l’esibizione sono molto pompati sui bassi, il che penalizza le chitarre ma valorizza l’insieme in modo efficace. Il pubblico partecipa numeroso, incoraggiato anche dalle nuvole e dal fresco vento di tempesta che soffia dalle colline. Il picco del concerto si raggiunge forse con l’intramontabile classico Saksenland: la band spiega di aver già proposto il brano nell’edizione del 2011 e di aver ricevuto una reazione a dir poco entusiastica; di qui l’idea di rirpoporlo anche oggi. Il tripudio è unanime e la folla continua a cantare il ritornello anche dopo la fine del brano. Se Saksenland iniziava con suoni di tuono e pioggia, la canzone seguente è Dondergod, nella quale – come se non bastasse – il pubblico viene incoraggiato a cantare e invocare «Donar»: naturalmente comincia subito a piovere. In generale si nota che gli spettatori rispondono molto bene ai brani più vecchi, mentre rimangono visibilmente indifferenti e impassibili davanti ai nuovi. La conclusiva Vulgaris magistralis (altro grande classico) conclude un concerto davvero buono.

Dopo la pausa, durante la quale le nuvole e la pioggia si sono addensate, salgono sul palco, trai boati del pubblico, i Kampfar, prima band black metal di questo Fosch Fest. Il concerto, complice anche lo scenario creato dalla tempesta in corso, è da brividi. Si parte con Mylder, che con un urlo maligno («Helvete!») apre degnamente uno scenario aspro e bellicoso nel quale si muoverà tutto il concerto. Dolk è un vero animale da palcoscenico: canta, urla e non sta mai fermo; si rivolge spesso al pubblico, esprimendo a parole e a gesti il proprio affetto e la propria gratitudine per gli spettatori sotto palco e dando voce anche al proprio disprezzo per quelli più defilati. La sua interpretazione è intensissima, tanto che durante le urla più strazianti la sua connessione col microfono si carica di un’energia quasi erotica. Notevole anche l’interpretazione del batterista Ask, il quale, oltre a pestare come un fabbro, presta la propria voce per la particolare Altergang. La scaletta spazia da brani presentati con orgoglio come «molto, molto vecchi» (Hymne, Troll, død og trolldom) a brani recentissimi (Mylder, Altergang), passando per gli anni 2000 (Lyktemenn, Hat og avind, Ravenheart, Vettekult). Terminato il concerto il ritorno alla realtà è arduo: rimane, forte, la consapevolezza di aver assistito ad un qualcosa di immenso e straordinario.

Il buio è ormai calato, la pioggia è finita e l’atmosfera si fa tesa ed intensa: ci inoltriamo nella zona più (ora metaforicamente) calda di questo secondo giorno. Sulle note di Yav entra in scena una delle band più attese del festival: i russi Arkona. Masha si dimostra subito estremamente in forma e, come di consueto, si barcamena senza alcuna difficoltà tra scream e clean. Naturale che tutti gli occhi siano puntati su di lei: il suo carisma e il suo fascino sono innegabili. Il loro concerto è uno di quelli destinati a lasciare il segno: la notte, le luci, le melodie esotiche e la lingua delle quali gli Arkona si servono ci fanno entrare come in un altro mondo. La scaletta è prevalentemente incentrata su pezzi atmosferici e non particolarmente veloci. Il pubblico è numerosissimo e rapito, in particolar modo durante pezzi celebri come Slav’Sja, Rus!, forse il momento più suggestivo del concerto. La band ha molti minuti a disposizione e li sfrutta a proprio piacimento: c’è persino tempo per un interessante assolo di cornamusa da parte dell’abile Vladimir «Wolf» Reshetnikov, poi affiancato dalla batteria. I pezzi più danzerecci e festaioli vengono invece riservati per la fine, quando vengono eseguiti l’indiavolata Stenka na stenku e la celeberrima Yarilo, che riescono a richiamare nel pogo anche chi, fino ad ora, era rimasto a guardare da lontano.

E, finalmente, è giunto il momento dei tanto attesi, idolatrati e discussi Carcass. Non appena era stata annunciata la loro partecipazione, le reazioni erano state a dir poco diversificate: da una parte gli entusiasti per la presenza di una band tanto importante, dall’altra i perplessi nei confronti dell’organizzazione, rea di aver snaturato la direzione artistica del festival. Tuttavia, non appena l’imponente scenografia viene montata sul palco, il pubblico accorre numerosissimo. A conti fatti, è in questo momento che il festival tocca il suo momento di piena. Il leggendario combo inglese si presenta in forma smagliante: Bill Steer suona con la consueta furia e precisione chirurgica, mentre un visibilmente alticcio Jeff Walker si intrattiene di tanto in tanto col pubblico, sfoggiando anche, in un breve momento di ilarità generale, il suo italiano bucolico. La performance è di quelle che lasciano senza fiato: poche le pause in una scaletta molto varia e bilanciata che spazia dai vecchi classici a brani tratti dall’ultimo, ottimo album Surgical Steel, non tralasciando nemmeno il discusso Swansong. Uniche due macchie in un concerto altrimenti impeccabile sono i volumi, eccessivamente alti e quindi a tratti distorti, e la breve durata della performance.

Carcass – setlist:
Unfit for human consumption
Buried dreams
Incarnated solvent abuse
The granulating dark satanic mills
Cadaver pouch conveyor system
Captive bolt pistol
Noncompliance to astm f899-12 standard
/ This mortal coil
No love lost
Exhume to consume
Reek of putrefaction
Black star
/ Keep on rotting in the free world
Corporal jigsore quandary
/ The sanguine article
Ruptured in purulence
/ Heartwork
Carneous cacoffiny
(outro)
 

 

3° giorno – domenica 9 agosto​

Running order:
15.30 – 16.00 Fosch
16.20 – 17.20 Furor Gallico
17.40 – 18.40 Dalriada
19.00 – 20.10 Månegarm
20.10 – 21.10 pausa
21.10 – 22.25 Finntroll
23.00 – 00.30 Satyricon

La pioggia e le nuvole di ieri hanno rinfrescato la nottata, ma in compenso oggi la giornata si apre all’insegna dell’umidità e del caldo. L’attesa per i concerti è lunga: s’inizia alle 15.30.

Dopo due interminabili soundcheck (il primo dei quali è dei Satyricon), con mezz’ora di ritardo, i primi a calcare il palco sono i Fosch, che non giocano in casa solo per quanto concerne il loro nome ma anche per la loro provenienza. Forse per quest’ultimo fatto la gente sotto il palco è già numerosa, in barba al caldo soffocante. Audefinitisi «orobic black metal», i bergamaschi non disdegnano nemmeno qualche incursione nel death. L’insieme non è originalissimo ma certamente suggestivo, merito anche del cantato in dialetto.

Visto il ritardo accumulato in precedenza, sommato a quello per il nuovo soundcheck, anche i Furor Gallico sono costretti ad iniziare 40 minuti dopo il previsto. La band lombarda, nonostante la sua giovinezza e la sua limitata discografia, gode di una grande fama nell’ambito folk metal italiano: immediatamente il pubblico si fa foltissimo, anche grazie alle sparute nuvole che velano un po’ il sole. Il palco è a dir poco affollato: si contano un vocalist, due chitarristi, un bassista, un batterista, un’arpista, un flautista ed un violinista. Mettere insieme un tale esercito in modo che tutti gli strumenti vengano valorizzati non è affatto semplice e infatti i suoni, nonostante il lungo soundcheck, sono piuttosto confusi. A farne le spese è soprattutto l’arpa, pressoché inudibile per quasi tutta la performance. Ciò nonostante la band e il pubblico sono particolarmente in forma e l’esibizione soddisfa tutti; da evidenziare il brano finale La caccia morta, forse il più celebre della band, durante la quale il vocalist Pagan si dà allo stage diving, continuando a cantare da sopra le teste del pubblico. Il Fosch Fest è nato come festival folk, ed è questo folk – quello più spensierato e ballabile – che attira maggiormente il pubblico.

A fare le spese di tutto questo entusiasmo è una band con più esperienza e con una concezione più raffinata del folk: gli ungheresi Dalriada. Il loro è un concerto tanto interessante quanto sfortunato. Pressoché sconosciuti in Italia, nella quale suonano per la prima volta, riescono inizialmente a radunare sotto il palco un misero pubblico, composto da qualche (sparuto) fan della band e da un gruppetto di curiosi, superstiti dell’esibizione dei Furor Gallico. A causa del ritardo, inoltre, il concerto dei Nostri coincide proprio con il meet and greet dei Finntroll, fatto che contribuisce a ridurre gli spettatori. Forse innervositi dall’esiguo e sconosciuto pubblico e dai problemi (poi fortunatamente risolti) che affliggono i suoni dei monitor, gli ungheresi compiono qualche errore di esecuzione, che però non va ad intaccare l’alta qualità della loro proposta musicale. Forte di otto album in studio e di un senso della melodia davvero fuori dal comune, il combo guidato dalla affascinante Laura Binder e dal talentuoso András Ficzek (la cui straordinaria performance vocale lascia letteralmente a bocca aperta l’audience) riesce, pur nelle avversità di oggi, a mettere su uno show di tutto rispetto e via via sempre più coinvolgente. Qualcun altro tra gli spettatori in disparte se ne accorge e si avvicina al palco, curioso ed entusiasta; non mancano nemmeno le danze di gruppo, il pogo e persino un wall of death: il pubblico è ufficialmente conquistato. Resta però il rammarico per una band validissima che non si è potuta esprimere in condizioni ottimali e che non è stata apprezzata come forse avrebbe meritato.

Come ieri, tira vento di tempesta; e, come ieri, è giunto il momento di una band decisamente più oscura delle precedenti: tocca ora infatti agli svedesi Månegarm. Il loro è un concerto asciutto, essenziale, ma solo esteriormente freddo: la passione dei tre è evidentissima e si sprigiona da ogni nota del loro viking/black. Purtroppo il concerto è piagato da gravi problemi sonori, che impediscono il corretto inserirsi dei numerosi campionamenti e, a tratti, li soffocano. Acquista quindi un’importanza maggiore rispetto al solito l’ottimo cantato melodico del frontman Erik Grawsiö, che si alterna alla voce sporca e rende il tutto particolarmente orecchiabile. Verso la fine del concerto un campionamento che avrebbe dovuto fungere da introduzione ad un brano si blocca improvvisamente: il frontman, visibilmente frustrato e probabilmente costretto ad operare dei tagli alla scaletta, decide di passare oltre e annuncia l’ultimo brano, Hemfärd, sul quale si chiude un altro concerto piuttosto sfortunato ma ugualmente molto intenso.

 

A causa del pesante ritardo accumulato, l’organizzazione decide di tagliare la pausa prevista dopo i Månegarm, in modo da far iniziare i Finntroll all’orario inizialmente calcolato. Peccato che l’ennesimo soundcheck interminabile faccia fallire miseramente l’idea. L’atmosfera si fa tesa e, sulle note di Blotsvept, entrano finalmente in scena i sei troll con le loro orecchie appuntite. Ed è questa l’unica loro scenografia: dietro di loro nemmeno il canonico telo, probabilmente a causa del vento. I suoni, problematici per tutta la giornata, sono ora fortunatamente ottimi. L’attesa per loro era grande, e infatti il pubblico è numerosissimo. Le canzoni eseguite non mancano di coinvolgere gli spettatori: tra le più trascinanti, si contano Solsagan, Nattfödd, e l’immancabile e immarcescibile Trollhammaren. Chiude il concerto Jaktens Tid. Si è appreso in seguito che, in realtà, erano ancora ben quattro le canzoni previste, ma che sono state tagliate per ragioni di tempo. Un vero peccato, considerando il livello altissimo del concerto e della band.

A conclusione del festival, sono delle vere e proprie leggende a calcare il palco. I tagli alle scalette delle band precedenti sono serviti: alle 23 spaccate compaiono infatti i Satyricon. Anche il loro è un concerto scenograficamente spoglio, se si eccettua l’asta personalizzata del microfono di Satyr. È naturalmente lui, insieme a Frost, ad attirare tutta l’attenzione dell’audience. La loro performance è furiosa e impeccabile, i suoni ottimi. Il pubblico, a dire la verità non numeroso come con i Finntroll, si dimostra inizialmente piuttosto freddo. La situazione cambia a partire dalle note iniziali del terzo brano, Now Diabolical. Il concerto si svolge proprio in una costante alternanza tra indifferenza ed euforia. L’indifferenza è rivolta soprattutto ai brani tratti dall’ultimo album, mentre l’euforia emerge evidentissima sui pezzi che, pur essendo recenti, sono ormai diventati nuovi classici (Now, Diabolical, Die by my hand, The pentagram burns, Fuel for hatred). Ma i Satyricon sono una band che ha fatto la storia, motivo per cui ad essere maggiormente apprezzati sono i veri classici: su The dawn of a new age e Mother North il consenso e la pelle d’oca sono unanimi. Satyr si rivolge più volte agli astanti, con risultati per la verità altalenanti: prima lanciandosi in una requisitoria contro i «giovani d’oggi», rei di apprezzare «quelle band americane che non ci mettono la passione», poi ricordando con nostalgia i primi concerti della band in Italia e l’entusiasmo con il quale era stata ricevuta. Prima della fine del concerto il frontman si rivolge per un’ultima volta al pubblico, annunciando che questo, per i Satyricon, è l’ultimo festival e forse anche l’ultimo concerto dell’anno: la band sta infatti scrivendo un nuovo album e necessita di ritirarsi a lavorare per i prossimi mesi. Lo scetticismo del pubblico («Speriamo in bene, stavolta», dice qualcuno tra la folla), lascia subito spazio all’esaltazione: l’ultimo pezzo è K.I.N.G., brano ormai amatissimo e immancabile nelle scalette dei norvegesi, che va a chiudere un’esibizione di qualità – come era lecito aspettarsi – estremamente alta.

​Satyricon – setlist:
Intro
The rite of our cross
Our world, it rumbles tonight
Now, diabolical
Black crow on a tombstone
The dawn of a new age
Ageless northern spirit
Die by my hand
The infinity of time and space
The pentagram burns
The wolfpack
With ravenous hunger
Mother North
Fuel for hatred
K.I.N.G.


Conclusione

Termina, così, la sesta edizione del Fosch Fest. Il bilancio finale è, senza ombra di dubbio, molto positivo. Tra i punti forti del festival va menzionata in primo luogo l’importanza e la qualità sempre alta delle band ospitate, a fronte di un costo, per i partecipanti, davvero esiguo. L’ambiente, sempre rilassato, familiare e festaiolo, si riconferma meraviglioso e probabilmente senza pari in Italia. L’organizzazione e l’offerta di servizi si è dimostrata buona anche quest’anno: uniche pecche, da questo punto di vista, sono state le code per i biglietti (dovute principalmente a imprevedibili problemi del sistema informatico) e per i buoni pasto. Problemi minimi, in ogni caso, risolvibili con qualche piccolo accorgimento.

Il festival si trova ora di fronte ad una grande sfida: quella relativa alla già citata direzione artistica. Quest’anno si è voluto ampliare l’orizzonte musicale, ma ciò ha suscitato malumori ed ha portato ad un’affluenza incostante che, parabolicamente, è salita fino a toccare il proprio massimo durante la seconda serata (Carcass), per poi ridiscendere lievemente il giorno dopo. Fare un passo indietro e tornare a limitarsi solo al folk consentirebbe un’affluenza più costante ed una fidelizzazione degli spettatori, ma d’altra parte non permetterebbe al festival di crescere e lo condurrebbe verso un’inevitabile stagnazione. Accantonare definitivamente l’orientamento folk significherebbe invece in qualche modo snaturare il festival, arrivando però a toccare un’utenza più numerosa e variegata, con tutti i risvolti positivi che ne conseguirebbero.

Staremo a vedere; quello che è sicuro, per ora, è che anche quest’anno il Fosch Fest si è riconfermato, da tutti i punti di vista, uno dei festival migliori d’Italia. E, al di là della direzione artistica, continuerà probabilmente ad esserlo in virtù della professionalità dell’organizzazione e dell’atmosfera che da sempre lo caratterizzano.

​Francesco “Gabba” Gabaglio