Hard Rock

Live report: Frontiers Festival V – 28/29 Aprile 2018

Di Fabio Vellata - 4 Maggio 2018 - 0:01
Live report: Frontiers Festival V – 28/29 Aprile 2018

Frontiers Festival V – 28/29 Aprile 2018
Live Music Club@ Trezzo sull’Adda (MI)

 

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Finalmente anche quest’anno l’atteso appuntamento con il Frontiers Festival è ai blocchi di partenza. Giunto alla quinta edizione e divenuto una routine quasi irrinunciabile per molti degli amanti dell’hard e dell’heavy di tutta europa – generi di cui Frontiers Music e divenuta da tempo orgogliosa e consolidata portabandiera – il concertone dell’etichetta tricolore è una sorta di favoloso viaggio nel tempo alla ricerca di sensazioni ancorate a qualche decennio fa, quando MTV passava i video hard rock di Quiet Riot e Motley Crue, i Journey sfondavano costantemente in classifica e Foreigner e Survivor erano nomi mitizzati e da disco di platino.
L’abbigliamento e l’età generalmente non giovanissima dei convenuti ne è lampante dimostrazione: una sacca temporale eruttata dal cuore degli anni ottanta.

Ad attenderci due giorni intensi di grande musica, con molte band capaci di segnare la storia del genere ad ingigantire una line-up carica di attrattiva e caratterizzata dalla presenza in un’unica soluzione di alcuni nomi non proprio agevoli da intercettare a queste latitudini.
Tantissime, come già accaduto gli scorsi anni, le presenze straniere tra il pubblico (una buona metà), a testimonianza di come il Frontiers sia evento sempre più di respiro internazionale. Il classico momento che si attende per un anno intero e che, una volta concluso, non si vede l’ora di poter replicare l’anno successivo.

Giorno Uno – 28 aprile 2018

Live report a cura di Fabio Vellata e Teresa Lastella

Hell in the club

 

Ad aprire la quinta edizione del Frontiers Festival arriva un po’ di sano hard rock tricolore, di quello di qualità, suonato con grinta, passione e voglia di divertirsi.
Sono in giro da un po’ gli Hell in the Club ed in effetti la professionalità e l’affiatamento con cui s’impadroniscono immediatamente del palco ne è chiara testimonianza.
C’è poco tempo, il pubblico non è moltissimo: non importa, Dave, Picco, Andy e Lancs ce la mettono tutta per instradare sui binari migliori lo show, offrendo le prime emozioni di giornata. Un’esibizione breve ma intensissima, cazzuta, rovente e di qualità: gli alessandrini stanno diventando una garanzia.
Carino il siparietto con l’astronauta a corredare la spiritosa “Houston we got no Money”, momento più colorito di una prestazione senz’altro divertente e carica d’energia.

Setlist:

Naural Born Rockers
Shadow of the Monster
Proud
Houston We’ve Got No Money
We Are The One
We Are on Fire
Devil On My SHoulder

Bigfoot

 

L’edizione del 2018 del Frontiers è iniziata senz’altro bene. Dopo i bravi Hell in the Club, sullo stage arriva il momento dei Bigfoot, band britannica autrice di un buonissimo debut album sul finire dello scorso anno, incentrato su di un hard rock molto robusto, energico ed infarcito di chitarre particolarmente roventi.
Tutto confermato e, se possibile, migliorato on stage: il gruppo sfrutta al meglio il breve tempo a disposizione mostrando tutto ciò che può servire nel confezionare una prova convincente: dinamismo, affiatamento, esecuzione pulita e buoni brani. Con in più, una voce – quella del singer Antony Ellis – capace di dominare la scena senza affanni.
“Freakshow” e “Forever Alone” i momenti migliori di una performance di valore, che ha lasciato intendere quanto i Bigfoot siano una band non capitata da questi parti per puro caso, ma per reali, concrete e solide qualità.

Setlist:

Tell Me A Lie
Run
Bitch Killer
Freak Show
Forever Alone
The Fear
Uninvited

 

Ammunition

 

Åge Sten Nilsen è un vero showman. Protagonista di una seconda vita artistica con gli Ammunition, dopo aver conquistato le scene anni fa con i fenomenali Wig Wam, (lo si conosceva con il nickname “Glam“) dimostra, sin dalle prime battute dello spettacolo di conoscere alla perfezione i tempi, le movenze, le dinamiche che rendono un’esibizione efficace.
Anche al netto di un sacco di problemi tecnici quali quelli accaduti durante il live dei suoi Ammunition: tutto superato sempre con un bel sorriso stampato sul volto, pure quando la situazione appare complicata per via di furiosi disturbi e ronzii alle casse spia presenti sul palco.
Fastidiosi, sì, ma nulla che possa in qualche modo permettersi di rovinare lo show al pubblico: la band macina così un bel po’ di brani tratti dai due album prodotti nella propria breve carriera, dimostrando come, pur apparendo statisticamente dei “newcomers” e nonostante qualche piccolo disappunto, gli Ammunition siano in realtà band rodata e d’esperienza.
Una buona resa nonostante tutto, ingioiellata da una serie di canzoni che puntano al divertimento e dalle quali emergono “Gung Ho”, “Freedom Finder” e la notevole “Road to Babylon”, ballata di grande classe e spessore.
Chiuso dalla pluripremiata “Wrecking Crew”, il passaggio degli Ammunition al Frontiers Festival verrà ricordato magari per qualche guaio “pratico”, ma pure per la sostanza dimostrata dalla band, guidata da un singer che è, allo stesso tempo, ottimo cantante e brillante animale da palco.

Setlist:

Time
Tear Your City Down
Do You Like It
Tie Me Down
Road to Babylon
Klondike
Take Out the Enemy (Hallelujah)
Gung Ho (I Told You So)
Freedom Finder
Eye For An Eye
Silverback
Wrecking Crew
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Praying Mantis

 

Il Frontiers festival numero cinque sale progressivamente sempre più di tono, accogliendo sul palco una band dal nome iconico e fortemente rappresentativo per tutto il movimento heavy, pur se non esattamente “tradizionale”.
Con i Praying Mantis entra in scena un pezzo di storia autentica della musica heavy-rock, ancora in pista dopo molti anni di militanza ed ancora in grado di dar lezioni a moltissimi giovani imberbi tornitori del metallo.
Guidati come sempre dai fratelli Troy (il caso ha voluto che il 28 aprile fosse proprio il giorno del compleanno del chitarrista Tino Troy, acclamato come si conviene dal pubblico), i Mantis hanno trovato nel singer John Cuijpers – nella band dal 2014 – un ottimo frontman, dotato di ugola d’acciaio e notevole presenza scenica.
Ben bilanciato tra vecchi successi e nuovo materiale, il concerto della storica band inglese non ha lasciato particolari rimpianti ai non ancora numerosissimi presenti, riversando nell’ora abbondante a propria disposizione molte delle buone caratteristiche riconosciute da tutta una carriera.
Momenti di maggior slancio nelle melodiche “Highway” e “Dream On”, con ulteriore menzione per la anthemica “Fight for your Honour” e la urgente “Time Slipping Away”.
Nulla da aggiungere: prestazione precisa, diretta e senza sbavature.

Setlist:

Captured City
Panic in the Streets
Highway
Believable
Keep It Alive
Mantis Anthem
Dream On
Fight for Your Honour
Time Slipping Away
Children of the Earth
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Michael Thompson Band

 

Come succede ogni anno in occasione di questo straordinario Festival, ognuno ha una ragione particolare sopra alle altre per parteciparvi. Un gruppo che non si sarebbe mai sperato di vedere, un artista ammirato da tutta una vita finalmente a portata di palco.
L’anno scorso furono i Tyketto, quello prima i Talisman, durante la prima edizione i Danger Danger: questa volta il proverbiale motivo “su tutti” era la presenza del maestro Michael Thompson ad ingigantire di fascino e prestigio una bill già di per sé ricchissima e carica di attrattiva.
Attivo da anni più come session che non in veste solista, Thompson ha saputo regalare all’audience esperta e amante di AOR almeno due perle assolute nella storia del genere, con un focus particolare sull’immenso “How Long”, disco edito nel 1988 e divenuto uno degli apici massimi del rock elegante e venato di Westcoast.
Accompagnato sul palco da ottimi musicisti, tra cui il bravissimo singer Larry King dei Soleil Moon e l’altrettanto abile Larry Antonino al basso (e voce), Thompson regala sin dai primi istanti perle di classe infinita, in virtù di un tocco chitarristico ai limiti del divino, capace di colorare con pochi e semplici accordi ogni tema musicale prodotto.
Un maestro vero e proprio che, insieme al resto della band passa in rassegna grandi brani come “Secret Information”, “Save Yourself”, “Wasteland”, “Can’t Miss”, “High Times” e la magnifica “Give Love a Chance”, pezzo che per classe e raffinatezza potrebbe quasi essere assunto come manifesto della Westcoast.
Spazio anche per la nuova “72 Camaro”, traccia che andrà a far parte del prossimo full length, previsto in uscita a breve.
Chiuso con l’esecuzione corale di “More Than a Feeling” dei Boston, lo show della Michael Thompson Band non ha deluso le nostre aspettative, portando sullo stage uno spettacolo che risulterà uno dei migliori di sempre visti a questo particolare festival.
Classe, eleganza, rock raffinatissimo mescolato a momenti di energia: un sogno ad occhi aperti che per la prima volta si è materializzato sul suolo italiano proprio grazie a Frontiers ed alla sua straordinaria kermesse d’etichetta.
Uno degli ormai innumerevoli meriti da ascrivere all’eccellente label partenopea.

Setlist:

  1. Can’t Miss
  2. Secret Information
  3. Love & Beyond
  4. Give Love A Chance
  5. High Times
  6. Save Yourself
  7. 72 Camaro
  8. Starting Over
  9. Wasteland
  10. More Then A Feeling

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Quiet Riot

 

Cambio palco e radicale cambio di suoni ed emozioni.
Dopo l’eleganza della Michael Thompson Band, ecco una spietata iniezione di energia stradaiola con il ritorno in scena dei leggendari Quiet Riot, un’altra di quelle band che possono comodamente dire di aver scritto un pezzo di storia della musica (hard) rock con brani divenuti classici inni da concerto.
Era, in effetti, parecchia la curiosità suscitata dal vedere e sentire all’opera il nuovo singer James Durbin, emerso dal talent American Idol e piazzato in tutta fretta dal leader Frankie Banali al centro dei Quiet Riot in sostituzione di Seann Nicols, letteralmente buttato fuori dalla band nel mezzo delle registrazioni dell’ultimo cd “Road Rage”, edito da Frontiers nel 2017.
Al termine dello show cui abbiamo assistito, viene in effetti spontaneo schierarsi dalla parte di chi ha operato questa scelta all’apparenza azzardata: Durbin è una vera potenza, in grado di assommare freschezza vocale ad una carica da animale da palcoscenico che ben si assesta sulle corde classiche dei Quiet Riot, perfettamente in linea con quello che fu lo spirito del compianto ed indimenticato Kevin DuBrow.

Introdotto dalle note di “We Will Rock You” dei Queen, il gruppo americano ha immediatamente spinto lo show verso il lato classico e più atteso del proprio repertorio, accendendo il parterre con incendiarie esecuzioni di “Run For Cover”, “Slick Black Cadillac”, “Mama Weer all Creeze Now”, “Terrified” e “Condition Critical” ritornelli con cui la sala – finalmente piena e ribollente – ha davvero dato prova di partecipazione.
Doveroso poi lo spazio riservato alla romantica memoria di Rhandy Rhoads, che, dopo una breve introduzione a cura del leader Frankie Banali, viene omaggiato con l’esecuzione di Thunderbird (resa ancora più speciale dalla presenza dell’eccellente Alessandro Del Vecchio quale ospite alle tastiere), momento che in un battito d’ali ha traghettato l’audience verso la seconda parte dello show, ancora una volta ispessita dai grandi anthem della band statunitense.
Pochi estratti dal recente album per lasciare maggior spazio alle tonanti “Party All Night”, “Let’s Get Crazy” e “Cum on Feel the Noize”, prima della conclusiva – totalizzante – “Metal Health”, “l’inno nazionale” dei Quiet Riot.

Infine, il consueto encore, con uscita dietro le quinte e ritorno in scena del quartetto richiamato dal vociare del pubblico, è stato riservato alla devastante cover di “Highway to Hell” degli Ac/Dc, pezzo che ha concluso in apoteosi un concerto intenso da risultare quasi sfiancante per le dosi di energia ed adrenalina prodotte.
Nulla da eccepire: l’aggiunta di Durbin ha ridato smalto, sprint e audacia alla band, ringiovanendone i connotati sino a renderla perfettamente credibile e competitiva ancora oggi, a distanza di più di quarant’anni dalla sua fondazione.
Dite se è poco…

Setlist:

Run for Cover
Slick Black Cadillac
Mama Weer All Crazee Now
Whatever It Takes
Terrified
Love’s a Bitch
Condition Critical
Thunderbird
Party All Night
Freak Flag
The Wild and the Young
Let’s Get Crazy
Cum On Feel the Noize
Metal Health (Bang Your Head)
Highway To Hell
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Stryper

 

Per portare a compimento una giornata intensa e sicuramente ricca di motivi d’interesse, ecco al fine giungere in scena gli altrettanto straordinari Stryper, gruppo di grande esperienza che nonostante i trentacinque anni di carriera è solo al terzo concerto in terra italiana. Non certo degli assidui frequentatori della penisola, considerato oltretutto che il primo live da queste parti risale al recente 2010.

La band, senza troppi giri di parole, appare in super forma. Ed il loro show, in tutta onestà, ci è piaciuto davvero molto.
Come sempre, assai anomalo – diciamo “unico” – il contrasto, quasi conflittuale, tra tematiche dai contorni spesso religiosi, ultraterreni e profondi, con motivi musicali talora quadrati come il porfido, piuttosto che affilati come lame ed accesi come una torcia incandescente.
Bellezza, peculiarità e carattere specifico di una band dai contorni pressoché mitizzanti come gli Stryper.
Una vera potenza di fuoco: Michael Sweet insieme al compare di sempre Oz Fox, al fratello Robert ed al nuovo bassista Perry Richardson (ex Firehouse) esordisce con i tagli furibondi di “Yaweh” e “The Valley”, due brani di puro heavy scalciante che lasciano piacevolmente sorpreso gran parte del pubblico per via dell’inattesa scarica d’energia.
Ci sarà – come ovvio – spazio anche per i grandi classici di una carriera lunghissima, inframmezzati da momenti di divertimento e molti sorrisi, con il consueto ed immancabile lancio di bibbie tascabili dal palco ad indottrinare i presenti verso il lato “positivo” della forza.
Il frontman Michael Sweet si è confermato, come da programma, un vero marpione e uomo “immagine”: non un capello fuori posto, sorridentissimo e spiritoso, tirato a lucido come un modello da copertina, eppure capace di sventagliare riff al calor bianco e di urlare nel microfono senza incertezze o cali di tensione per quasi due ore di spettacolo.
Andiamo dritto per dritto in blasfemia: semmai volessimo immaginare un versione “moderna”, anni 2000, del Gesù di Nazareth, probabilmente non ci dispiacerebbe potesse assomigliare proprio a mr. Sweet

“Calling on You” – primo gigantesco sussulto per la platea – “More than a Man”, “In God We Trust”, “Soldiers Under Command” e “Always There For You” alcuni dei momenti topici di uno show che si è mantenuto costantemente su di giri, rivelando una freschezza ancora completamente intatta come ai bei tempi ed una compattezza di gruppo che è evidente frutto di una condivisione d’intenti che dura – per tre quarti della band – da tanto tempo.
La sinergia tra le chitarre di Sweet e Fox è a tratti elettrizzante, spazia e contraddistingue ogni brano, dai più antichi e conosciuti sino ai nuovi capitoli del personalissimo “testamento” made-in-Stryper quali “God Damn Evil”, “Sorry” “Can’t Live Without Your Love”, estratti dal recente – ottimo – nuovo cd, uscito giusto da qualche giorno.

Condotto al riparo da qualsiasi possibile disappunto per l’intera durata da una band perfetta, scintillante e precisa come un orologio svizzero, il concerto degli Stryper ha insieme esaltato i presenti (nel frattempo cresciuti esponenzialmente di numero) e confermato la bontà di un progetto musicale che ancor oggi ha parecchio da dire ed offrire ai propri fan.
Chiudono “Honestly”, ballatona fatta su misura per esaltare la fiammeggiante voce di Sweet, “The Way” ed il bis ”To Hell With The Devil”, uno dei grandissimi classici che congeda con cori assordanti l’audience da uno show memorabile ed inappuntabile.

Setlist:

Yahweh
The Valley
Calling On You
Free
More Than Man
All For One
Lady
Revelation / In God We Trust
Sorry
Surrender
Soldiers Under Command
God Damn Evil
Big Screen Lie
Can’t Live Without Your Love
Always There For You
Loud ‘n’ Clear
Honestly
The Way
To Hell With The Devil
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Non potevamo sperare in meglio: una chiusura degnamente gloriosa per questo primo giorno di Festival!
Oggettivamente stanchi dopo più di nove ore di concerti, ci avviamo comunque soddisfatti alla nostra auto, ripensando ad alcuni dei momenti migliori di questa giornata di musica. Molte cose buone, tanti conoscenti e amici ritrovati, un paio di incontri da ricordare (quello con Kip Winger ci resterà per sempre impresso!) e qualche attimo di viva emozione.
Ci portiamo via, indelebili, le memorie di una grandissima Michael Thompson Band, di uno straordinario James Durbin (e Quiet Riot) e di un headliner come gli Stryper, gruppo più unico che raro per tutto quello che rappresenta e sa offrire in senso ampio e completo.
Ma in generale, tutto è stato notevole, di livello decisamente buono: grande, unico ed inimitabile Frontiers Festival!

Giorno Due – 29 aprile 2018

 

frontiers rock festival 2018 orari

 

Live report a cura di Carlo Passa

 

Secondo giorno della quinta edizione del Frontiers Rock Festival, ormai affermatosi come uno deI principali eventi hard rock e AOR a livello europeo. A dimostrarlo è la numerosa e multilingue affluenza fin dalle prime ore di un piacevole pomeriggio primaverile. Il pubblico del Frontiers spazia da giovani rocker colorati a stempiati quarantenni che vestono consunte magliette dei Journey, passando per le immancabili aspiranti groupie che sognano gli anni ottanta.
L’organizzazione è ormai ben rodata, con lo spazio esterno del Live a fare da cuscinetto tra un’esibizione e la successiva, oltre che da luogo d’incontro con i membri delle varie band, che volentieri si prestano a foto e chiacchiere con i fan.
Insomma, una bella atmosfera.

Perfect Plan

Il Live è già sufficientemente gremito quando i Perfect Plan salgono sul palco, alle 15:00 esatte, aprendo le danze con “Stone Cold Lover”. I suoni sono già buoni e la reazione dei presenti all’AOR/Melodic Rock proposto dagli svedesi è calda e partecipativa: c’è voglia di divertirsi.
La band gira bene e i pezzi sono di più che discreta fattura. Attendevo con curiosità la prestazione del cantante Kent Hilli, che mi aveva positivamente impressionato su disco: pur dotato di una timbrica notevole, e perfettamente adatta al genere, Hilli ha dimostrato qualche imperfezione sulle note più alte, non sempre così intonate.
Dopo le piacevoli “1985″ e “Bad City Woman”, i trenta minuti concessi alla band si concludono con il singolo “In and Out of Love”, che lascia un buon ricordo al pubblico.

Setlist:

Stone Cold Lover
What Goes Around
Never Surrender
1985
Bad City Woman
In and Out of Love

Animal Drive

Bite!, il disco di esordio dei croati Animal Drive, ha creato grosse attese, grazie a una dinamica mistura di hard rock, suoni heavy e addirittura qualche spunto più progressivo. I ragazzi sono giovanissimi; e si vede, più nel bene che nel male. La band trasuda, infatti, entusiasmo e il cantante, Dino Jelusic, da solo ne incarna lo spirito, offrendo una prestazione notevole, seppur imbastardita da qualche forzatura di troppo.
La qualità delle composizioni, decisamente alta, aiuta la riuscita del concerto, che percorre la maggior parte dei pezzi di Bite!  Il pubblico gradisce e sembrano numerosi i fan della band, ben a conoscenza delle canzoni.
Gli Animal Drive si concedono addirittura il lusso di chiudere il concerto con quella “Deliver Me” che aveva sollevato non pochi dubbi in fase di recensione del disco. Il pezzo, infatti, si allunga un poco di troppo, volendo recitare il ruolo di una suite quasi prog metal (con tanto di assolo di tastiere di Dino) che scarta decisamente da quanto proposto nel corso del resto del concerto.
I ragazzi della band si sono volentieri concessi ai fan dopo l’esibizione e, con grande simpatia e disponibilità, mi hanno confidato che “Deliver Me” rappresenta la possibile direzione futura degli Animal Drive. Staremo a vedere: nel frattempo, il pubblico del Frontiers si affolla allo stand dell’etichetta a comprare Bite!

Setlist:

Goddamn Marathon
Time Machine
Hands of Time
Had Enough
Lights of the Damned
Tower of Lies (I Walk Alone)
Deliver Me

Issa

Dopo la freschezza contagiosa degli Animal Drive, ecco arrivare Issa, che propone un AOR molto melodico e sostanzialmente costruito intorno alla voce acuta e ben intonata della norvegese. La performance di Issa è sostenuta da una band che ce la mette tutta a dare un corpo rock alle composizioni: nientemeno che membri di DGM, Vision Divine, Maya e della band di Pino Scotto si dannano l’anima per la causa. Tuttavia Issa patisce inevitabilmente la pochezza dei propri pezzi, risultando in una svilita versione AOR della peggiore Celine Dion. Quando poi sale sul palco Dino Jelusic degli Animal Drive a fare le veci di Deen Castronovo, che sul disco duetta con Issa in “Sacrifice Me”, il risultato è a metà tra Amici e un qualsiasi Sanremo delle coppie uomo-donna. Il pubblico se ne accorge e lascia in buon numero la pista del Live, abbandonando la simpatica Issa alla sua dimensione sostanzialmente inane.

Setlist:

Crossfire
Angels Crying
Come Back Again
Invincible
Sacrifice Me
I am Alive
Everything to Me
Looking for Love
Can’t Stop

Kip Winger

Ci stavamo ancora lamentando della melassa in cui eravamo stati immersi da Issa, quando ecco arrivare una grande sorpresa. Mentre dietro il sipario fervono le operazioni di cambio strumentazione, i pochi che non sono usciti dal Live a prendere aria dopo o durante il concerto di Issa strabuzzano gli occhi a vedere una sagoma nota salire timidamente sul palco e attaccare il jack della sua chitarra acustica.
Qualcuno chiede “ma è lui?”  È lui: Kip Winger regala al pubblico, che si fa presto numeroso, un set acustico di una ventina di minuti piacevolissimi, durante i quali propone una serie eccezionale di grandi pezzi della sua band omonima. Ed ecco, dunque, “Madelaine”, seguita dalle sempre emozionanti “Miles Away” e “Heading for a Heartbreak”, che lasciano il segno sul cuore dei più attempati. Finale debordante con l’inno “Easy Come Easy Go” e saluti al pubblico orante.
Grande voce, eccellenti arrangiamenti, splendido groove. Ci siamo decisamente ripresi da Issa.

Setlist:

Madelaine
Miles Away
Instrumental
Heading for a Heartbreak
Down Incognito
Easy Come Easy Go

Pretty Boy Floyd

Se c’è una cosa che apprezzo del Frontiers Rock Festival (e, più ampiamente, del nostro genere) è la sua notevole varietà. Dopo la raffinatezza acustica minimale di Kip Winger ci troviamo, infatti, davanti quel gruppo di ragazzacci in pelle nera e trucco (de)cadente dei Pretty Boy Floyd.
Arrivati a un pelo dal successo nella Los Angeles degli anni ottanta, a causa di una prima uscita discografica buona ma leggermente tardiva rispetto al momento clou dell’hair metal, i Boyz hanno galleggiato per anni nell’underground per ritornare ultimamente con un bel piglio, rinverdito dal crescente rigurgito d’interesse per le sonorità del Sunset Strip.
La storica “Leather Boyz with Electric Toys” apre la performance di Steve “Sex” Summers e compagni: ed è subito chiaro che cosa il pubblico potrà attendersi nella successiva ora scarsa. Suoni grezzi, arrangiamenti slabbrati, prestazione aggressiva, attitudine in your face sono gli ingredienti di questo pezzo di storia del glam street rock, di cui i Boyz rappresentano per certi versi un prototipo.
Che bello riscoprire le varie “Wild Angels” (che è una grandissima, e ingiustamente sottovaluta, power ballad) e “Rock And Roll (Is Gonna Set The Night On Fire)”, vere perle del genere apprezzate a gran voce dal pubblico festante. La voce di Summers, che davvero attendevo al varco, è rimasta graffiante e acutissima, mantenendo quel tocco decadente e lussurioso che è uno dei tratti caratterizzanti dela band statunitense.
A chiudere il concerto ecco la cover di “Live Wire”, un tributo a quei Mötley Crüe che rappresentano evidentemente il modello di riferimento dei Boyz.
In sostanza, una ottima prestazione da parte di una band esperta che ha ancora qualcosa da dire anche alle nuove generazioni.

Setlist:

Leather Boyz with Electric Toys
Rock ‘n’ Roll Outlaws
Fell the Heat
Your Momma Won’t Know
Wild Angels
48 Hours
Toast of the Town
Saturday Night
I Wanna Be With You
Rock And Roll (Is Gonna Set The Night On Fire)
Live Wire

FM

Proseguendo nel solco della varietà, il pubblico si affolla sotto il palco in attesa dei britannici FM. L’evento è veramente tale, perché la band registrerà il concerto per una prossima pubblicazione su CD e DVD. Ci si attende, dunque, una prestazione (e una scaletta) che faccia onore all’occasione.
E gli FM non tradiscono. Steve Overland sfodera una prestazione sopraffina, tanto perfetta da sembrare irreale. Scalo posizioni sotto il palco per guardare la band da vicino e posso vedere i sorrisi dei musicisti, che dimostrano nei fatti e nell’attitudine quanto amino quel che stanno facendo. Il risultato non può che essere un concerto stupendo, probabilmente il migliore dell’intera giornata, con il pubblico estasiato dalla qualità dei pezzi e dal groove cangiante che la band sa offrire.
L’apertura con “Black Magic” è fatta apposta per scaldare il Live e ribadire come la band non viva solo dei fasti ottantiani ma sappia ancora sfornare pezzi eccellenti e straordinariamente freschi.
Certo è che non si può trattenere l’entusiasmo se gli FM propongono “I Belong to the Night”, ma anche “Someday (You’ll Come Running)”, la splendida “Over You”, o “Does it Feel like Love”, tutte eseguite benissimo. Il tempo passa veloce e “Love Lies Dying” apre la parte conclusiva del concerto, dedicata ai brani storici dei britannici, tra i quali ovviamente spiccano “That Girl” (quanti di noi la conobbero grazie agli Iron Maiden?) e “Other Side of Midnight”.
Applausi scroscianti salutano l’uscita degli FM, che rappresentano il meglio dell’AOR a livello mondiale, assommandone tutte le caratteristiche identificative: melodia, stile, suoni, tecnica e tanto feeling. Resta la domanda sul perché i britannici abbiano raccolto, negli anni, molto meno di quanto seminato. La risposta può risiedere nel livello eccelso dei competitor che gli FM si trovarono a fronteggiare al tempo delle proprie uscite: i Journey non si battono.
Straordinari.

Setlist:

Black Magic
I Belong to the Night
Life Is a Highway
Let Love Be the Leader
Someday (You’ll Come Running)
Killed by Love
Metropolis
Over You
Closer to Heaven
Does it Feel like Love
Story of My Life
Love Lies Dying
Bad Luck
Tough It Out
That Girl
Other Side of Midnight

Core Leoni

Ero curiosissimo di ascoltare i Core Leoni, la band messa in piedi da Leo Leoni dei Gotthard per ripescare pezzi della sua band madre ingiustamente dimenticati nelle pieghe del tempo, con l’obiettivo di rinverdirli soprattutto grazie all’ugola di Ronnie Romero, voce dei Lords Of Black (una grande band davvero) e notissimo per essere parte della formazione più recente dei Rainbow di Ritchie Blackmore.
Fare le veci di Steve Lee non è semplice, ma certo non è un compito impossibile per chi ha avuto onore e onere di offrire la voce a brani immortali originariamente interpretati da gente come Ronnie James Dio, Graham Bonnet e Joe Lynn Turner.
La band non tradisce le aspettative: un Romero in gran spolvero si innesta alla grande su brani suonati con coinvolgente trasporto. Il pubblico canta, si diverte ed entra subito in sintonia con musica e musicisti. La scaletta è una sorta di best of dei primi dischi dei Gotthard ed ecco dunque “Higher”, la fantastica “Firedance” e le classiche “In the Name” e “Mountain Mama”. Anche la nuova “Walk on Water” non sfigura nei confronti di pezzi resi grandi anche dal tempo, come “Make My Day”.
Nel complesso, un gran divertimento hard rock. E poco importa che la ragione non smettesse di ricordare che, alla fine dei conti, non si tratta altro che di una super cover band: il cuore non lo sa e si ritrova a urlare a squarciagola il ritornello di “Let It Be”.

Setlist:

Speak Softly Love (Love Theme From The Godfather)
Higher
Standing in the Light
Downtown
Walk on Water
Firedance
All I Care For
Let It Be
In the Name
Tell No Lies
Make My Day
Mountain Mama
She Goes Down
Ride On
Here Comes the Heat

Jørn

Il programma ha accumulato un ritardo di circa mezz’ora, grazie a e non a causa del piacevole intermezzo acustico di Kip Winger, quando Jørn Lande sale imperioso sul palco del Live. Incarnazione stessa del metallaro nordico, possente, epico e carismatico, il cantante norvegese apre il concerto con due dei suoi pezzi migliori: la lunga e anthemica “Bring Heavy Rock to the Land” e quella “Life on Dead Road” che dà titolo all’ultimo disco del Nostro e suona come uno dei migliori pezzi non scritti dai Whitesnake, ma a loro perfettamente adatti. Eppure anche cotanti assi da novanta sembrano non riuscire a eccitare il pubblico: da un lato la tarda ora e una giornata non certo breve hanno tagliato le gambe dei presenti, dall’altro la band non eccelle per dinamica e finisce per fornire una prestazione piatta e certo non coinvolgente. Solo l’avvicendarsi di Francesco Jovino al posto di Beata Polak dietro le pelli della batteria riesce a fornire un po’ più di dinamica alle canzoni, senza però poter rendere ottimo ciò che semplicemente non lo è.
Jørn è così, come certi studenti dalle ottime capacità, ma mal consigliati. È dotato di una voce oggettivamente superba (e tale si è dimostrata nel corso dell’intero concerto al Frontiers Rock Festival), ma la applica a composizioni troppo spesso scialbe e inconcludenti, il cui tratto migliore è in molti casi il titolo (“Lonely are the Brave” suona benissimo): non canzoni brutte, per carità, ma semplicemente vane e a tratti noiose. Ecco, il concerto di Jørn è stato vano e a tratti noioso.
Anche pezzi buoni come “Stormcrow” sono travolti da una generale mediocrità che non passa inosservata al pubblico, che inizia a disertare la sala del Live, per fare una chiacchierata nell’area esterna o andare a dormire un po’ prima del previsto. Anche Jørn se ne rende conto, ma non sa fare molto per riprendere le redini della serata, ormai andata storta.
Meno male che a un certo punto cala sui pazienti astanti una bella “Master of Sorrow”, introdotta da Alessandro del Vecchio al piano, che sa dare spessore e feeling al pezzo.
Quando, poi, arrivano le cover di Ozzy (“Shot in the Dark”) e Dio (“The Mob Rules” e “Rainbow in the Dark”) vuol dire che si sta raschiando il fondo del barile. Certo, il pubblico reagisce con maggiore veemenza (e questo dovrebbe far riflettere il norvegese), ma l’effetto tristezza non può che confermarsi.
Come su disco, anche dal vivo, se non saprà illuminare le proprie eccellenti doti con sostanza compositiva di livello, Jørn rischierà di trasformarsi in una macchietta da cover band. Merita più di quanto visto a Trezzo.

Setlist:

My Road
Bring Heavy Rock to the Land
Life on Dead Road
Blacksong
World Gone Mad
Stormcrow
Sunset Station
Ride Like Wind
Legend Man
Out to Every Nation
Master of Sorrow
Shot in the Dark
Walking on Water
I Came to Rock
Traveler
Rock and Roll Angel
Man of the 80s
The Mob Rules
Rainbow in the Dark
Lonely are the Brave

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Finisce così anche la quinta edizione del Frontiers Rock Festival. Suoni ben curati per l’intera giornata, con la sola pecca del volume basso della chitarra di Leo Leoni (almeno a fronte palco), un ambiente piacevole e rilassante, un’atmosfera fresca e variegata hanno fatto ancora una volta dell’appuntamento primaverile di Trezzo uno dei momenti caldi della stagione del rocker europeo. Ho rivisto numerosi volti incontrati in occasione delle edizioni precedenti, a dimostrazione della fedeltà del popolo hard rock al Festival e alle band, giovani e storiche, che salgono sul palco sin dal primo pomeriggio.
Una fresca e lieve pioggia primaverile ci bagna mentre scorriamo nel parcheggio del Live. Accanto alla nostra auto, il bassista degli Animal Drive ride con un paio di fan: che bello l’hard rock!