Report: Axel Rudi Pell + Vengeance, Pratteln (CH) 20 settembre 2006

Di Marcello Catozzi - 26 Settembre 2006 - 14:36
Report: Axel Rudi Pell + Vengeance, Pratteln (CH) 20 settembre 2006

Novara, 20 settembre 2006.
Di buon mattino mi metto in viaggio a bordo della mia fedele Opel Ascona classe 1988, con obiettivo Pratteln (Svizzera tedesca). Stasera è in programma uno show da non perdere: i Vengeance (hard-rockers olandesi in pista dal 1983) e Axel Rudi Pell, che in Italia si è fatto vedere soltanto in un’occasione (Tradate 2005); a voler essere sincero, il motivo dominante, lo stimolo più forte che mi spinge a sciropparmi tutti questi km. è la possibilità di godermi l’esibizione di Mike Terrana, ammirato l’ultima volta nell’aprile scorso, ma con i Rage, a Milano.
Arrivo puntuale all’appuntamento fissato con amici rockettari emiliani, salgo sulla loro auto e, insieme, ci dirigiamo al valico di frontiera. Almeno questa volta – penso – non verrò fermato (come sempre) dai diffidenti doganieri, insospettiti dalla mia vecchia e gloriosa rock-car, che potrebbe effettivamente apparire – agli occhi degli sconosciuti – come un’inquietante auto-bomba!
Il nostro viaggio scorre piacevolmente, attraverso paesaggi bucolichi, con placide mucche al pascolo e ridenti paesini abbarbicati sulle colline attraversate dall’autostrada, tra il verde ordinato delle campagne e il profondo azzurro del lago di Lucerna.
Giunti a Pratteln (frazione di Basilea), ci sistemiamo in hotel e divoriamo qualche panino; nel pomeriggio, eccoci davanti allo “Z-7 Konzertfabrik”. Dalla porta di servizio escono le note del sound check e si intravede il drum set che oscilla; anche se non conoscessi le canzoni della band, non potrei certo sbagliarmi: quegli ondeggiamenti sono prodotti dalle martellate di Mike Terrana, che sta scaldando le pelli. Scorgo Gioeli in canottiera, che scherza con Ferdi Doemberg e mi godo le prove da questa inconsueta prospettiva, mentre i roadies dei Vengeance cominciano a scaricare il materiale.
A quel punto ci raggiunge un altro amico che ha affrontato il viaggio in auto, da solo, proveniente da una località emiliana: è venuto esclusivamente per i Vengeance, i quali – fra l’altro – non sono mai stati in Italia. Si lustra gli occhi assistendo al warm-up dei due chitarristi che, seduti su un paio di scatoloni con la sigaretta penzolante dalle labbra tipo Slash (a proposito: uno di loro, Peter, è famosissimo in Belgio e in Olanda come componente dei Gunz ‘n’ Rozes), si sgranchiscono le dita in attesa del loro turno di sound check. L’amico si dimostra preparatissimo sull’argomento, sciorinandomi un sacco di nomi e date riguardanti la storia della band (dal 1983 in poi). Quando, alzando lo sguardo, inquadra il cantante che sta scendendo dal tour bus in jeans e camicia azzurra, interrompe bruscamente la conversazione e gli va incontro con passo spedito, alzando le braccia e urlando: “Leeoon!”. Questi, atterrito nel vedere che un tipo corpulento e barbuto con borsa a tracolla ce l’ha proprio con lui, spalanca gli occhi e cerca istintivamente una via di fuga, ma alla sua destra c’è il muro dello Z-7 e a sinistra la fiancata del tour bus; chissà cos’avrà pensato in quegli istanti il povero Leon… A quel punto il mio amico lo stringe in un abbraccio affettuoso, fugando così i timori di un attentato estremista; da parte mia gli spiego subito che l’energumeno in questione è un suo fan, venuto apposta dall’Italia, e pertanto i suoi lineamenti si distendono, finalmente, in un sorriso compiaciuto. Veniamo invitati ad assistere al sound check della band e quindi ci diamo appuntamento a fine concerto, liberando Leon dall’incombenza di rispondere alle pressanti domande che il mio amico mastino gli rivolge a raffica sui vari split verificatisi in seno alla band e sugli eventi che, infine, hanno condotto alla reunion.

Verso le 19.00 la gente comincia a entrare nel locale e a prendere d’assalto il bancone a caccia di birra, mentre noi siamo già piazzati in prima linea. Ore 20.00: le luci si spengono e, sulle note de “Il Gladiatore”, i Vengeance si presentano sul palco, dando il via alle danze. La line-up è la seguente:

– LEON GOEWIE voice
– BAREND COURBOIS bass
– PETER BOURBON guitar
– JAN SOMERS guitar
– HANS IN ‘T ZANDT drums

Un rapido sguardo dietro di me: ci saranno già circa settecento persone. Quando la band attacca con Take it or Leave it, l’aria è già bella calda e il mio amico si lancia nella sua tipica invocazione: “Leeoon! Siamo quiii!” a braccia alzate, facendo un po’ di vuoto intorno a sé.

La scaletta prosegue con due pezzi del nuovo album, Back in the Ring e No Mercy (cfr. la recensione del nostro Fabio Vellata), e quindi con altri brani del glorioso passato. Ma ecco la set–list completa:

• INTRO
• TAKE IT OR LEAVE IT
• BACK IN THE RING
• NO MERCY
• TAKE ME TO THE LIMIT
• SHE IS THE WOMAN
• BAD BOY
• ROCK AND ROLL SHOWER
• HEAVEN STRIKE ME DOWN
Encore:
• ARABIA

Da sottolineare l’ottima compattezza di suono e la straordinaria coesione della band, sorretta da una base ritmica bella tosta e da quelle due chitarre con un sound volutamente, tipicamente “eighties”, che mettono in mostra un Jan Somers strepitoso, con assoli puliti e graffianti, ma soprattutto un Leon Goewie indiscusso padrone della scena.

Le sue movenze, la mimica facciale e lo stile canoro ne fanno un simpaticissimo protagonista: ero piuttosto curioso di ascoltare dal vivo questo cantante, per verificare se la sua particolare timbrica fosse un prodotto”da studio” ovvero se il biondo vocalist fosse, di fatto, in grado di palesare quelle caratteristiche in una dimensione “live”; a tale proposito devo dire che il buon Leon ha dimostrato di essere un ottimo interprete e, soprattutto, un grande animale da palcoscenico, capace di coinvolgere la folla e di scatenare forti entusiasmi. Durante She is the Woman, ad esempio, eccolo trascinare al centro del palco una tenda indiana per invitare una donna del pubblico a entrare con lui nel tepee (invito – purtroppo per lui – non raccolto), oppure, in Rock and Roll Shower, esibirsi in una doccia improvvisata, prima con una bottiglia d’acqua, poi con un boccale di birra…

Ma, a parte gli aspetti scenografici, direi che i Vengeance sono prima di tutto eccezionali musicisti, navigati istrioni e autentici alfieri di quel sano e genuino hard rock anni 80, in grado di trasmettere ancora oggi intense emozioni. Il loro stile è immediato, spontaneo: un po’ Krokus, un po’ AC-DC, un po’ Saxon… Nella loro musica ci si riconosce e ci si tuffa volentieri, e mi chiedo per quale motivo non ci sia stato un promoter italiano che abbia ritenuto di invitarli nel nostro paesello. Mah!?… Lasciamo perdere.
Merita un ultimo cenno Arabia, che viene proposta quale bis: come mi aveva anticipato il mio amico esperto in materia, questa canzone (appartenente al primo periodo) evidenzia una rocciosità e un impatto sonoro non comune, fottutamente heavy, con i riff di Somers che entrano dritti nello stomaco nel segno di un refrain orientaleggiante della migliore tradizione (tipo Stargazer, The Gates of Babylon o Ariel, per intenderci, senza voler con questo scomodare i mostri sacri dell’illustre passato). In una parola: grandissimi. E sinceramente mi auguro di poterli vedere presto in Italia, per la gioia di tutti gli aficionados di un genere che non morirà mai.

Stanchi, ma felici di essere riusciti a trattenere il nostro amico dall’intento di scavalcare le transenne e lanciarsi sul palco, tiriamo un po’ il fiato in attesa degli headliner della serata.
Alle 21.40, davanti a quasi un migliaio di persone, nel buio tagliato da lamine di luce bluastra a guisa di ventaglio, le note dell’intro lasciano il posto alla travolgente Fly to the Moon (tratta dall’ultimo album Mystica). Here we go!
La band è composta da:

– JOHNNY GIOELI voice
– AXEL RUDI PELL guitar
– FERDY DOEMBERG keyboards
– VOLKER KRAWCZAK bass
– MIKE TERRANA drums & percussion

Dopo le martellate del pezzo iniziale, si continua con una delle mie preferite, ovvero Strong as a Rock, con Johnny che prende possesso del palco a modo suo, sfoggiando ammiccamenti e movenze che spingono istintivamente il caloroso pubblico a cantare il ritornello. A seguire: Follow the Sign e l’esplosiva Masquerade Ball, che sfocia nella celeberrima Casbah, accompagnata dal coro della folla in preda a una scatenata euforia.
La set–list è la seguente:

• FLY TO THE MOON
• STRONG AS A ROCK
• FOLLOW THE SIGN
• MASQUERADE BALL – CASBAH
• DRUM SOLO
• MYSTICA – CASBAH
• ACOUSTIC MEDLEY:
LOVE GUN
OCEANS OF TIME
• HAUNTED CASTLE
• KEYBOARD SOLO
• TEMPLE OF THE KING
• TEAR DOWN THE WALLS
• ROCK THE NATION
• CALL HER PRINCESS
Encore:
• FOOL FOOL
• CAROUSEL

Come ho già confessato in premessa, il motivo principale che mi ha spinto a venire fino a qui è dovuto alla presenza di Mike Terrana. Pertanto mi sono piazzato nel front, nell’ottica di non perdermi neanche un movimento del mostruoso drummer. Prima, però, di dedicarmi all’arduo compito di descrivere le sue imprese, vorrei spendere due parole per gli altri componenti della band. Mi ha colpito, anzitutto, il sound di Volker, che col suo basso intesse delle trame ben scandite e metalliche, dai suoni secchi e puliti e non cupi e impastati, come troppo spesso capita di sentire. Ferdi, dal canto suo, conferma di essere un ottimo tastierista con il suo apporto e i suoi registri, decisi e sempre originali: bellissima e divertente la parte del suo assolo in cui duetta con Axel in una sfida a colpi di scale mozzafiato!

Johnny impressiona ancora una volta per le sue qualità di frontman, dotato di grande estensione vocale, limpida e potente, in linea con lo stile della band; nelle ballad Gioeli si esprime al meglio, ma non sfigura affatto anche nei pezzi più tirati e impegnativi. In Call Her Princess, ad esempio, o nella classica Fool Fool, dimostra di non avere problemi ad affrontare impervie difficoltà. Nell’immortale Temple of the King, addirittura, si cimenta in un banco di prova dei più proibitivi (se si pensa al modello originale), cavandosela con onore.

Non altrettanto, forse, si può sostenere per quanto riguarda Axel: in questo brano, infatti, il suo assolo non convince, dando l’impressione di trascinare le note verso direzioni troppo distanti dalla melodia centrale; ma questa è solo la mia modesta opinione, condizionata – lo ammetto – da un profondo legame con l’espressività della tradizione Rainbow: conseguentemente, il mio giudizio potrebbe risultare improntato alla massima severità. Peraltro devo riportare – a onor di cronaca – le opinioni di altri presenti, i quali si dichiarano piuttosto delusi – in generale – della performance di Axel, che viene stigmatizzato per un utilizzo esagerato del delay (per i non “addetti ai lavori”, trattasi dell’espediente di reiterare, prolungare alcune note durante una scala, al fine di arricchire un assolo), nonché per la mancanza di originalità o, meglio, di uno stile “personale”. Quest’ultima accusa risulta, in effetti, piuttosto ricorrente nei suoi detrattori: ricordo che me ne aveva parlato un grande chitarrista, di livello mondiale, secondo il quale Axel non vale assolutamente nulla come musicista, potendosi tutt’al più definire un semplice “entertainer”! Personalmente, invece, ritengo che A. Rudi Pell sia un ottimo compositore, in grado di scrivere pezzi significativi e soprattutto “heavy ballad” di grande spessore; quanto alla sua capacità sotto il profilo tecnico, sicuramente ci sono guitar-hero più bravi di lui, ma ciò non significa che non possa essere considerato un grande interprete e, soprattutto, ciò non toglie che sia sempre un piacere assistere a un concerto di questa levatura. A maggior ragione, quando nel gruppo in questione ci sono musicisti di tali qualità.

E infine, veniamo a Mike. Credo che senza alcun dubbio si possa ritenere il perno strutturale della band, il centro attorno al quale tutto si muove e tutto funziona, , l’elemento cardine, l’ingranaggio fondamentale che fa girare il motore. In altre parole: questa band non sarebbe più la stessa, senza di lui. Si tratta, in sostanza, di uno di quei casi in cui il drummer dà un’impronta fondamentale al sound, allo stile, insomma al prodotto finale. In termini calcistici, lo si potrebbe definire “hombre del partido”, “man of the match”! E’ il fuoriclasse che fa fare il salto di qualità alla squadra, colui che risolve sempre le partite, il bomber infallibile, quello che non sbaglia mai un colpo. In effetti, in questo caso proprio di colpi si tratta. E che colpi..!
Sono sempre stato attratto dai batteristi dotati di tali caratteristiche, capaci di emergere in virtù di quel particolare tipo di timing, di quella timbrica così personale e immediatamente identificabile… Penso a Cozy Powell, ad esempio, che per molti è stato un idolo e un esempio da imitare: era così speciale, che alcune canzoni si potevano identificare e riconoscere grazie al suo attacco. Oppure a quelle macchine da guerra che fanno tremare lo stomaco per la potenza che esprimono, tipo Micky Dee o Tommy Aldridge, per capirci. O, ancora, a quei fenomeni che si permettono pure di fare spettacolo, durante un’esecuzione, come se non bastasse il tiro impressionante che imprimono (vedi Tommy Lee). Bene, per me Terrana è tutto questo e anche di più. L’ho osservato attentamente, in molte occasioni, e ogni volta questo fenomeno mi trasmette sensazioni fortissime, sia negli assoli (sempre speciali, travolgenti), sia durante l’accompagnamento delle canzoni, in cui al piacere dell’udito si aggiunge un vero e proprio godimento per la vista, con quel vertiginoso e continuo roteare di bacchette fra le dita e con quelle fulminee prese al volo, mentre la sua cresta da moicano si agita ritmicamente.

Mike è pirotecnico, oltre che straordinariamente “fisico” nel suo drumming: una volta notai il suo assistente grondante di sudore, dovendosi prodigare, lo sventurato, a riparare i danni inferti dal “terminator” al drum kit durante il concerto! Infatti si possono osservare le aste d’acciaio di sostegno ondeggiare paurosamente sotto quei forsennati colpi di martello, e alla fine di una canzone ci si aspetta sempre di veder crollare rovinosamente la struttura sul palco! E cosa dire delle chiusure? Sono autentiche cannonate che ti colpiscono allo stomaco. Certe rullate, certi stacchi, quei passaggi da brivido hanno dell’incredibile per la strepitosa velocità di esecuzione, e ci si chiede come faccia a “starci dentro”. Talvolta mi viene spontaneo pensare che Terrana non sia umano, quando lo vedo picchiare furiosamente su piatti e tamburi, mentre il suo lavoro di gambe risuona possente e incessante, a pieno regime. Insomma, un’esibizione del genere vale, da sola, il prezzo del biglietto e non ci si stanca mai di ammirare un tale sfoggio di tecnica e pura violenza.
Persino durante il break acustico si avverte il tocco peculiare dell’homo telluricus: a torso nudo, seduto sullo sgabello, picchia sul tamburo che stringe fra le gambe, accompagnando in tal modo gli accordi delle chitarre, e le sue manate risuonano forti e pesanti, stagliandosi nell’aria come un indelebile marchio di fabbrica.

Tutto ciò premesso, non esito ad attribuire al nostro eroe il titolo di numero uno della categoria. E pensare che a suo tempo il buon Mike aveva pensato di smettere, perché negli States non riusciva a trovare lavoro a causa del periodo di crisi del Metal..!
Il Carousel finale è tutto un fuoco d’artificio, con botti assordanti che esplodono uno dopo l’altro a suggellare una prestazione eccezionale. Non ci resta che spellarci le mani e urlare tutta la nostra gratitudine, tributando la più meritata delle ovazioni a questo inimitabile protagonista e anche ai suoi compagni di avventura.
Grandissima serata, grandissimo show: quanti chilometri, ma ne valeva davvero la pena!
Come scrisse R.J.D. (mi si perdoni l’immancabile citazione), anche in questa occasione sarebbe il caso di dire: “The magic that we feel is worth a lifetime”.

Marcello Catozzi